Mestieri
commercianteLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
ArgentinaData di partenza
1951Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)A distanza di sette anni dal primo invio di scritti, Rocco Capezzone torna a rivolgersi all’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, nella persona del suo direttore Saverio Tutino. La sua è una lettera aperta all’Italia.
Mendoza – Argentina – 14 luglio 2000
ESTIMADO DIRECTOR DE: PRIMAPERSONA
SEÑOR PERIODISTA SAVERIO TUTINO
SENDEROS AUTOBIOGRAFICOS
Lettera aperta
Cara e lontana Italia
Ti scrivo questa letteraccia d’emigrato e ti chiedo scusa se il mio italiano zoppica un po’, perché ti lasciai mezzo secolo fa e non sono mai più tornato. […]
Quanti anni quanti kilometri e….. quanta nostalgia, Italia mia, bella, lontana e perduta per sempre.
Non voglio e non posso parlarti della vitaccia mia; sarebbe troppo doloroso e pure chissà, noioso, perché durante questo mezzo secolo d’emigrato ne ho viste, patite e vissute di tutti i colori. […]
In tutti i modi, cara e lontana terra mia, ti assicuro che la storia della mia vita è simile a quella di milioni di figli tuoi, che un giorno lontano ce ne andammo in silenzio, senza schiamazzi, senza cantare, senza odii e senza chiederti nulla.
Dai porti di Genova, di Napoli e della Sicilia partivano le grandi navi, ci ingoiavano senza compassione e ci vomitavano poi, dopo un lungo viaggio che durava un mese; nelle steppe gelate del Canadà, nei deserti senza orizzonti d’Australia e nelle sconfinate pampas del Sudamerica.
Nei bauli di larice e nei valigioni di cartone portavamo i pochi stracci che ancora puzzavano di sangue polvere e miseria. Era il dopoguerra.
I nostri cuori erano pieni di una nostalgia anticipata, d’un dolore di figli che si allontanano dalla mamma, perché tu non avevi latte per allattarci tutti. Stavi debole, ancora ammalata di una guerra maledetta e fratricida, ancora avevi ferite aperte, per l’odio, la politica e la fame.
L’altro ieri, per festeggiare il mio mezzo secolo d’emigrato me ne sono andato solo sulle Ande, dove vado spesso, perché vivo, ho figli e nipoti proprio ai suoi piedi. L’Acongagua, la montagna più alta di tutta l’America, dista un paio d’ore da casa mia. Lassù alle sue falde meravigliose e selvagge, fra nuvole rocce e ghiacci mi sposai molti anni fa, mia moglie bellissima donna latinoamericana, morì tragicamente ancor giovane. I miei figli ed i miei nipotni me la ricordano.
Ma lo sai – cara e lontana Italia mia – che ancora che la faccio con queste montagne sudamericane altissime, selvagge e meravigliose?
Da buon montanaro altoatesino a 70 anni ancora scalo queste Ande che conobbi da ragazzo sul libro Cuore del nostro caro De Amicis, nel racconto Dagli Appennini alle Ande. […]
Quando raggiungo i 3 o i 4 mila, fra rocce, nuvole, ghiacci e condor, cerco invano le stelle alpine, i rododendri, le genziane, i mirtilli e non li trovo affatto.
Le Ande, cara Italia mia, non sono le Alpi, eppure io queste montagne ormai le ho nel cuore, nelle pupille e dentro delle mie vene, perché ai suoi piedi dorme la mia compagna, e negli occhi dei miei figli e nipoti leggo il verde – giallo della flora andina, il bianco immacolato delle nevi eterne il rosso delle rocce bruciate dai secoli. […]
Nevicava forte quel dicembre del 50, quando ti lasciai per emigrare. Avevo vent’anni e arrivato all’ultima curva del sentiero che mi conduceva alla stazione volli per l’ultima volta vedere, guardare, imprigionare nel cuore e nelle pupille la casetta, la chiesetta alpina, la valle, il bosco, la tramontana era feroce, insensibile, atroce.
I miei occhi non videro altro che neve, dolore, distacco, nostalgia anticipata. […]
Ricordi lontani che fanno male, che feriscono l’anima, che riaprono vecchie ferite, che mi fanno chiedere perché mi lasciasti fuggire, emigrare, perché mi abbandonasti se io pure ero un figliolo tuo, io pure ero italiano. Ero – cara e lontana Italia mia – chissà, un po’ più italiano che altri, perché nato lassù nel Brennero, dove essere italici era veramente difficile, dove Cesare Battisti fu impiccato per essere un italiano come me… porca miseria.
In tutti e modi, lo stesso ti amo, ti voglio bene e ho molta nostalgia di te, del tuo cielo e del tuo mare, delle valli e delle mie montagne, dei monumenti, delle tue chiese, delle genti, del tuo tricolore. […]
Qui, solo, seduto su una roccia che guarda e conversa con le stelle di milioni di anni, guardo laggiù lontano e vedo questa povera ricchissima America Latina, questo povero terzo mondo ormai mio e dei miei figli e nipoti e allora spesso piango per queste genti, per questi milioni di esseri umani che da 500 anni abbracciano la pietà della croce e soffrono il rigore della spada. Soffro e m’incazzo perché dopo 500 anni ancora i potenti mandano qui navi piene di specchietti e pezzetti di vetro e si portano via oro, argento, preziosi, grano, carne. 500 anni di stenti, di fame, di miserie, di prepotenze, di malattie, di saccheggi, sono troppi.
Per tuttociò spesso piango m’arrabbio e stringo i denti, perché questo ormai mio povero terzo mondo merita un destino migliore… e non lo trova.
Voglio, in questa letteraccia d’emigrato – carissima Italia mia – prima di chiudere parlarti di parecchi tuoi figli emigrati al terzo mondo come me.
Sappi patria mia, che molti sono già morti e perciò non soffrono più, parecchi però, ancora vivi, ormai vecchi, spesso ammalati, stanno soffrendo molto, anche se hanno lavorato sodo, anche se hanno fatto incredibili sacrifici, durante mezzo secolo, per colpa della maledetta globalizzazione, sono ridotti alla povertà, la miseria, alla solitudine spesso al atroce depressione. E si pure sono i tuoi figli, la globalizzazione, la politica sbagliata e l’egoismo dei potenti stanno facendo strage tra di loro. Soli, abbandonati e vecchi, ormai aspettano solamente la morte liberatrice.
Mamma Italia, Non li abbandonare, fatti rispettare gli a Roma, dove il tuo cuore batte forte, aiutali, proteggere, cercali e li troverai, negli ospizi, negli ospedali, nei manicomi, nelle pianure, nelle valli, sulle montagne, nelle grandi città, nei sobborghi, nei porti, nelle miniere, sui cieli e sui mari. Cercali Italia mia, aiutali, essi nacquero e moriranno italiani.
Ti confesso, patria mia, che non sono né ricco e neppure povero, per me non ti chiedo niente, ancora ce la faccio, cerco di non scivolare verso il precipizio che ci spinge la maledetta globalizzazione. Non so se ce la farò, almeno ci provo, anche se ormai sto camminando sul viale del tramonto. Tiremm innanz…. diceva Cesare Battisti quando si ruppe la corda che lo impiccava…Tiremm innanz, e viva l’Italia, e poi morì. Anche noi diciamo lo stesso: Tiremm innanz, e viva l’Italia.
Rocco Capezzone
Il viaggio
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