Mestieri
elettricistaLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
Francia, GermaniaData di partenza
1957Data di ritorno
1970Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Il giovane Luciano Giovanditti, emigrato in Francia negli anni ‘50, racconta la mancata integrazione degli italiani nel tessuto sociale locale.
Malgrado la nostra buona volontà, nessuno riusciva a integrarsi. Non avevamo una vita sociale in comune con i francesi del Nord. Non avevamo la conoscenza sufficiente di quella terra per poterlo fare. Invece, avevamo una vita sociale tra di noi, col prete italiano che di tanto in tanto ci veniva a dire una messa. Noi emigranti ci incontravamo sistematicamente tutte le domeniche mattine al mercato delle pulci. Era un modo di ritrovarci. Né cinema, né circolo italiano. La cultura non era di casa e non sapevo neanche se abitasse altrove. Tra di noi non c’era un solo pittore, un solo poeta, un solo scultore. C’era però qualche ragazzo e qualche vecchio italiano, che grattava un po’ di chitarra. E poi c’era mio padre che aveva una voce alla Claudio Villa e si divertiva a fare le parodie di qualche canzone. Una, molta richiesta dagli amici emigranti, cantata mezza in italiano e mezza in dialetto, era quella che diceva: – Buon giorno tristezza, me fàccje ‘u passapòrte da pecuntrìa, mo part pe la Francia e fàccje na véra fessarìja. Piangono i figli mìje tutt’a-ttórne a mme e piangono senza che io so il perché; e chiàgnene cu mme. Buon giorno tristezza, mi faccio ‘u passapòrt de Io parto per l’Italia, e se chiàgne sténghe dint ‘a casa mìja. E continuava… Era il suo modo di scrollarsi il sacco di carbone che portava sulle spalle. Il suo modo di far sentire la sua voce, di contestare la sua e la nostra condizione. Quella condizione che lui sopportava meglio di noi e che io non accettavo. E non capivo quando diceva: – “Figlio mio, quando un uomo ha un po’ di lavoro è ricco”. Io invece vedevo attorno a me molto lavoro e tanta povertà. Povertà: compravamo solo il necessario per vivere. Povertà: in casa nostra non c’era un libro, né un quotidiano. Povertà: non praticavamo nessun tipo di sport. Povertà: non conoscevo altri luoghi al di fuori della fabbrica, della chiesa e della sala da ballo. Povertà: ci privavamo di tutto con la speranza di mettere qualche centesimo da parte per poter un giorno reintegrarci nel nostro Sud. Povertà viziosa dei poveri emigranti, di apparire piuttosto che di essere. La povertà non mi faceva male. Era la miseria che mi annodava la gola e le meningi. La miseria nel vedere qualcuno deridere una persona analfabeta. La miseria di vedere manipolare un uomo per colpa della sua ignoranza. La miseria della mancanza di cultura nelle nostre case. La miseria umana e stupida degli emigranti di nascondere ai loro parenti o amici in Italia la loro povertà.
Il viaggio
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Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Gli altri racconti di Luciano Giovanditti
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