Mestieri
cooperanteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
EcuadorData di partenza
2011Data di ritorno
2011Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)È il primo giorno che Agostino Arciuolo trascorre in Ecuador, impegnato in progetto di cooperazione allo sviluppo.
Lunedì 20 giugno
Ho riaperto gli occhi alle otto in punto, svegliandomi da un sonno leggero ma rinfrancante. Ho sfilato dalla valigia i primi panni che mi sono capitati per le mani, infilato gli scarponi pesanti ai piedi e, senza perdere altro tempo, mi sono precipitato fuori ad esplorare il campo. Al primo passo oltre l’uscio ho tirato un profondo respiro per assaggiare l’aria che tira da queste parti: quassù, a quasi tremila metri d’altezza, l’atmosfera è schiacciata da minor pressione ed ha una densità di ossigeno più bassa del solito. È più rarefatta, più fina, sopraffina. Con essa l’intero mattino mi si è infilato dentro, mescolandosi col sangue ed entrandomi di repente in circolo. Me lo sento pulsare dentro, quasi a compensare la mancanza di pressione esterna.
Allungo lo sguardo: un maestoso olmo regna incontrastato sullo spazio antistante la casa; all’ombra dell’albero due bambini giocano appesi ai fili intrecciati di un’altalena, noncuranti della sporcizia che hanno appiccicata addosso, incrostata sulle magliette e impastata ai moccoli sulle loro facce scure. Mi avvicino senza farmi notare e, per osservarli meglio, mi siedo a due passi da loro su una panchina di legno, consumata dalle intemperie ma dall’aspetto ancora robusto e affidabile. Tutt’intorno si dipana una fitta rete di fili di ferro, su cui sono stese ad asciugare lunghe serie di coloratissimi panni d’ogni tessuto e dimensione, da poco strofinati a mano e ancora grondanti acqua e sapone. I due bambini mi notano, smettono di giocare e si fermano a guardarmi incuriositi, in silenzio, con le dita sporche in bocca. Mi alzo, mi avvicino e «buongiorno, — dico — come vi chiamate?». Mi abbasso piegandomi sulle ginocchia, per mettermi alla loro altezza e rendere più facile la risposta. Che arriva, timida e smozzicata, solo dopo qualche secondo di titubanza, con i due marmocchi a scambiarsi grandi occhiate reciproche: «Io sono Manolo — fa il più grande dei due — e lei è mia sorella Diana». «Manolo e Diana» mi ripeto, come a volermi subito fissare i nomi. «Io invece sono Agostino. E quanti anni avete?» A questa domanda tentano, con grande difficoltà e senza successo, di rispondere con le dita, impregnate di terra e saliva, e comunque non abbastanza flessibili da disporsi in un numero riconoscibile. Meno di cinque, in ogni caso. «Bene, scusatemi il disturbo e continuate a giocare. Io vado a fare un giro. Ci vediamo più tardi». Saluto con un gesto della mano i due piccoli, che ricambiano allo stesso modo.
Poco più in là, oltre l’olmo e lo stendino gigante che si spande ai suoi piedi, intravedo Fred camminare lungo un sentiero di polvere. La stradina è costeggiata da alti tronchi di pino ed eucalipto imperscrutabili in cima, tappezzata dalle foglie secche e rancide di quest’ultimo, e ben deodorata dal loro forte aroma. Raggiungo di corsa Fred e, felice di averlo subito incontrato, lo saluto con allegria. «Vengo con te» gli dico. Passeggiando mi spiega che le foglie degli eucalipti, decomponendosi, rilasciano un elevato tasso di acidità, che a lungo andare può compromettere e persino sterilizzare la produttività del terreno sottostante. «È per questo — conclude — che, insetti e pietre a parte, nient’altro cresce ai loro piedi». Poco più avanti, proseguendo per il cammino (prodotto mai ultimato dell’inesorabile andirivieni dei passi di uomini e animali lungo i decenni, forse secoli), Fred mi ha mostrato i luoghi dove lente trascorrono le giornate di lavoro nell’hacienda, come qui chiamano la tenuta agricola che si estende d’intorno (facendo curiosamente ricorso all’antico nome delle proprietà coloniali, con un’ironia semantica che potrebbe suggerire l’origine storica, oltre che terminologica, di questi terreni). In ordine di apparizione: una piccola capanna, costruita con paglia e legname, destinata all’essiccatura di mais e fagioli; una stalla dove due volte al giorno viene munta la dozzina di mucche che appartengono alla Fundación; un pollaio con più di venti galline e qualche gallo; una compostera dove vengono ammonticchiati i rifiuti organici («per lo più piante secche, scarti di cucina, gusci d’uovo e mierda de vaca») per lasciarli fermentare e aspettare che diventino concime, utile per mantenere sempre alto il grado di fertilità del suolo; e, per finire, una vecchia baracca dove sono allevati un centinaio di cuyes (porcellini d’india), piccoli e simpatici roditori a metà strada tra criceti e conigli, che da queste parti, contrariamente alle nostre usanze, si mangiano ben volentieri. Poco lontano, in un’ampia brughiera che termina là dove inizia il bosco, due lama pascolano tranquilli, ruminando il loro pasto con l’inconfondibile sguardo, ebete e rintontito, che li contraddistingue. Li osservo, e un’imprevista ondata di tedio mi travolge il cuore per un breve istante.
Completato il giro illustrativo, Fred m’ha condotto infine nella huerta, l’orto che, mi spiega, produce la gran parte dei beni ortofrutticoli che si mangiano qui nell’hacienda. «La rimanenza —mi fa presente — è portata ogni martedì in vendita ambulante per le vie di Tabacundo, un piccolo centro abitato a pochi minuti da qui. Si tratta di prodotti biologici, coltivati con tecniche totalmente organiche: dalle nostre parti non si fa ricorso a tutte quelle porcherie chimiche che, senza accorgercene, ci ammazzano poco alla volta». M’ha poi presentato due volontari tedeschi, Felix e Felipe, che lavorano qui da volontari già da qualche mese. «C’è anche Valentin, — aggiunge —ma di mattina preferisce dare una mano a scuola». «Anche a me piacerebbe — gli confesso — ma prima avrei bisogno di migliorare la mia conoscenza della lingua». «Sì, certo… — mi risponde Fred — Però c’è un problema: la scuola finisce fra meno di tre settimane, e ricomincerà poi a settembre, quando sarai già ripartito». Ma prima di lasciarmi esprimere la mia disapprovazione per l’inconveniente, «Aspetta! — fa lui, stringendomi il braccio — Potresti iniziare mercoledì e andarci fino alla fine: due settimane sono un tempo sufficiente». «Ma mercoledì è dopodomani… —balbetto confuso — Come faccio con la lingua?» «Non preoccuparti — ribatte lui, mettendo una rassicurante cadenza nella voce e dandomi una pacca sulla spalla — Il tuo spagnolo è già quasi all’altezza di questo compito: ti basterà poco per acquisire una buona parlata». Felice della insperata e inattesa notizia, ringrazio Fred per la fiducia riposta in me sin da subito. Mi consiglia di parlare con Valentin: «Lui ti darà consigli e dritte. Nel pomeriggio, però: stamattina è meglio che tu venga con me a dare una mano a Esteban, il responsabile della vivera: è da solo, e c’è molto lavoro da fare».
La vivera è un piccolo vivaio dove vengono coltivate e protette alcune delle piante native maggiormente esposte al rischio di estinzione. Esteban è un ragazzo che trasmette buon umore, sa sorridere con semplicità. Ha lineamenti indigeni, pelle scura e muscoli robustissimi, malgrado l’esile apparenza. Parla molto, quasi quanto lavora, e non ama riposarsi: lui dice perché non si stanca mai, abituato com’è fin da piccolo alla fatica del campo. «È solo un modo come un altro del pastore, guardiano e governatore degli animali, colui che li nutre e ne ricava nutrimento. Mi spiega che ad ogni volontario spetta mezzo litro di latte al giorno, non una goccia di più. «Di quello fresco, appena munto» aggiunge. «Non c’è modo migliore per iniziare la giornata». Lo dice convinto, come fosse verità scientifica. «Siediti qui, e osserva bene quello che faccio io: non ti spiegherò nulla», mi dice indicandomi uno sgabello ai piedi di una vacca già pronta, in posizione per essere munta. Dopo aver esaminato attentamente i movimenti delle sue dita, provo anch’io ad afferrare un capezzolo per tentare di tirarne fuori qualcosa. Lo scarso esito iniziale non mi distoglie dall’obiettivo, e solo dopo aver insistito più e più volte riesco a fatica ad ottenere qualche mediocre risultato. Non mi ci vuole molto per capire che non serve a niente stringere e spremere con for-za, agitando le braccia e i polsi: è sufficiente una leggera pressione dei polpastrelli, verso l’inter-no e il basso contemporaneamente. Mentre cerco di fare del mio meglio alle prese con quelle abbondanti tette, Eladio ha già riempito un secchio di latte. Si alza, mi posa una mano sulla spalla, accenna un sorriso e mi fa: «Niente male per essere la prima volta».
Mi viene da dire lo stesso ripensando, ora che è finita, a questa prima giornata: niente male davvero. La notte è già arrivata da un pezzo, non fa le ore piccole da queste parti. E alle nove è già ora di dormire. Non foss’altro perché alle sei è già ora di saltare giù dal letto. Ed io non mi farò trovare impreparato.
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