Mestieri
operaio, impiegato, ristoratoreLivello di scolarizzazione
avviamento alberghieroPaesi di emigrazione
CanadaData di partenza
1951Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)La dura vita di Armando Viselli, emigrato in Canada negli anni Cinquanta, marcatempo tra gli operai che costruivano le ferrovie nelle sterminate pianure del Nord America.
A quei tempi, la Canadian National Railway, stava ringiovanendo tutto il suo sistema ferroviario, ed io sin dalla mia partenza dall’Italia, venni assunto da una compagnia appaltatrice che la rappresentava. Poco più di tre mesi dopo dal mio arrivo in Canada, fui mandato a lavorare come marcatempo su una delle centinaia di “Extra Gang” dislocate lungo l’interminabile strada ferrata, la cui mano d’opera per questa gigantesca operazione, era fornita principalmente da migliaia di nostri connazionali meridionali, come me giunti freschi dall’Italia.
Tanto io come i cento dieci uomini che facevano parte del nostro gruppo, tutti, calabresi, gente onesta, dura e lavoratrice, ci trovammo completamente isolati dal resto del mondo, e volenti o dolenti obbligati ad accettare le condizioni imposteci dai dirigenti. Essendo io l’unica persona che masticava un po’ l’Inglese, ed il solo strumento di comunicazione tra i due partiti, automaticamente divenni vittima delle circostanze. Confrontato da due mentalità diverse, “quella latina” calda, sentimentale, irruenta, e l’anglosassone fredda, calcolatrice, premeditata mi trovai tra l’incudine ed il martello, cosicché oltre a dover combattere la nostalgia, la cattiveria umana, il freddo glaciale e la crudeltà della natura fui obbligato a barcamenare diplomaticamente per accontentare l’uno e l’altro.
Pare che a causa di un grande malcontento per le ingiustizie subite, gli uomini della “Extra Gang 156” s’erano ribellati contro il cuoco ed il marcatempo, e quest’ultimo un po’ per paura che gli uomini gliele suonassero di santa ragione, un po’ perché s’era stufato di fare la vita dell’eremita aveva dato le dimissioni per tornare all’università. Per ristorare ordine e disciplina tra i ranghi il più presto possibile, ma anche perché incapace di trovare un sostituto in quattro e quattrotto, Mr Moffatt scelse me per rimpiazzarlo e m’inviava d’urgenza sul posto.
M’accompagnava l’ispettore Greg, un sarcastico figlio di puttana che apertamente m’aveva dichiarato che odiava a morte gl’italiani, un alcolizzato fino alla cima dei suoi capelli rossigni, arrogante ed ignorante quanto mai. Ebbe il barbaro coraggio di lasciarmi solo durante tutta la notte ed il giorno seguente senza farmi assaggiare un goccio di veleno mentre lui ogni volta che il treno si fermava s’andava a rifocillare. Ero all’oscuro di tutto, non sapevo deve andavamo o quando arrivavamo perché lui non c’era mai, fu molto specifico però nell’ordinarmi di non muovermi da dove ero seduto. Spariva per ore ed ore e riappariva soltanto per riassicurarsi che ero ancora là, non sapevo se il treno faceva una fermata lunga o corta ed un paio di volte che m’ero allontanato per andare a cercarmi qualcosa da mettere sotto i denti a momenti rimanevo a piedi.
Oltre ad andare a passo di lumaca, il convoglio s’arrestava a qualsiasi casello ferroviario ed ebbi l’impressione che l’interminabile viaggio non dovesse mai aver fine. Il sole stava scomparendo all’orizzonte quando con la lingua di fuori che toccava per terra, assetato, affamato e stanco, mettemmo piede sul vagone cucina della “Extra Gang I56” dove il cuoco e due suoi aiutanti non ci degnarono nemmeno di uno sguardo perché indaffarati a servire la cena. Passammo subito sul primo vagone mensa, dove alla luce di lumi a petrolio, trovammo gli uomini seduti silenziosamente a tavola che stavano consumando il loro pasto.
Greg era mezzo brillotto e senza un filo di considerazione o rispetto per i presenti, senza alcun tatto o delicatezza, trasgredendo completamente qualsiasi diritto umano, rudemente cominciò a battere col pugno sui tavoli e gridando a destra e sinistra, puntando il dito saltuariamente sul petto di questo o di quello con parole abbastanza offensive, fece radunare i capi della presunta insurrezione e senza dar loro modo di fare la loro deposizione, tramite me che ero l’interprete di punto in bianco mi fece dire loro che per punizione li trasferiva in un’altra parte dell’Ontario. Se c’erano altri che non erano soddisfatti e desideravano seguirli, non dovevano fare altro che aprire bocca e lui li avrebbe accontentati.
Dagli sguardi m’aspettavo una reazione un po’ più bellicosa, invece nessuno fiatò ma quando qualcuno venne a chiamarlo ed io rimasi solo in mezzo a loro, quattro o cinque dei più violenti mi circondarono e sfogarono la loro ira sopra di me che ne ero stato il portavoce. Logicamente con le buone maniere cercai di fargli capire che io non c’entravo niente, che non avevo fatto altro che il mio dovere traducendo quello che m’era stato ordinato di dir loro, ma a chi parlavo al muro?
Quelli non sentivano ragioni, io ero il responsabile di tutto quel pandemonio e nulla al mondo avrebbe fatto cambiar loro idea. Quando Greg tornò portò con se il cuoco e tutti insieme attraversammo un altro vagone mensa dove mi presentò ai tre assistenti, due finlandesi ed un italo-canadese al meccanico ed al marcatempo.
Quest’ultimo doveva avere le spine al culo, perché mi fece subito cenno di seguirlo, e saliti su un altro vagone, in fretta e furia mi istruì vagamente su quello che avrei dovuto fare, mi consegnò della merce, delle chiavi e due ore dopo di quella stessa sera, lui e Greg ripartirono, portando con loro i tre uomini puniti. Al momento della partenza, gli uomini erano tutti presenti.
I loro visi erano seri, cupi, nessuno fiatava, l’aria era così densa, così tesa che si sarebbe potuto tagliarla col coltello. Il luccichio dei lumi delle lampade a petrolio sembrava aumentasse la tragicità del momento, la minima mossa sbagliata, la minima parola male interpretata sarebbe stata sufficiente per fornire la scintilla e causare un disastro. Non posso mettere la mano sul fuoco ma in quell’istante ebbi l’impressione che anche Greg ed il marcatempo dovevano aver intuito qualcosa che non andava, perché tutto d’un tratto, specialmente a Greg, oltre a passargli istantaneamente la sbronza, aveva perso l’arroganza e s’era ammutolito. Gli occhi degli uomini erano pieni d’odio e di vendetta, e nessuno mi toglie dalla testa che erano così accecati, che per loro, trucidarli entrambi sarebbe stato facile come bere una tazza di caffè, e soltanto quando vidi l’ultima vettura del treno passeggeri svanire nella notte, solo allora mi feci il segno della croce ed emanai un lungo sospiro di sollievo.
Mamma mia che cambiamento. In poco meno di ventiquattrore, avevo lasciato il paradiso per trovarmi solo soletto dentro all’inferno.
Il convoglio era fermo su un binario morto ad una diecina di miglia fuori di Hornepayne, un paesetto con quattro case, un ristorante, un negozio, la stazione e la rotonda, situato alla fine dell’universo, e collegato con il resto del mondo civile soltanto con la via ferrata e se per disgrazia succedeva qualcosa al treno erano fregati.
Dei diciotto vagoni che componevano il nastro gruppo conosciuto come “ Extra Gang 156” undici carri, dormitori erano per alloggiare tutti gli operai, un altro era soltanto per gli assistenti ed il meccanico, su questo c’erano un paio di lettini vuoti tenuti pronti per casi d’emergenza, un carro cucina, con un altro carro adiacente diviso in due, metà adibito a magazzino e frigorifero per la carne, l’altra metà ci dormiva il cuoco, due carri mensa, un carro attrezzi e un vagone soltanto per il marcatempo. Il mio era diviso in due, da una parte in fondo c’erano due lettini ad ogni lato, al centro c’era il mio ufficio che consisteva tutto in una cattedra una sedia e una grande lampada a petrolio, una stufa a legna, due secchi per l’acqua e l’altro pieno di carbone, mentre l’altra metà protetta completamente da una rete metallica con porta e lucchetto, era adibito a magazzino generale. C’erano sigarette, tabacco, cartine, buste, carta da scrivere, francobolli, dolciumi vari, coca cola, camice, calzini, maglie mutande, cappelli, calzini ed altri articoli, in più avevo in consegna una ventina tra coperte, lenzuola e cuscini che forniva la compagnia per affrontare qualsiasi emergenza. Oltre a vendere tutta questa merce, il mio compito principale era di compilare giornalmente un rapporto approssimativo del lavoro che veniva fatto, tenere conto delle ore lavorative di tutti i componenti del gruppo inclusi gli assistenti, preparare quindicinalmente i fogli paga e smistare e distribuire la posta in arrivo e prendere cura di quella in partenza.
Già ero mezzo tonto perché non avevo chiuso un occhio durante tutto il viaggio, pensando che nel termine di due o tre ore avevo dovute assorbire tutte queste istruzioni, c’è da immaginare quanta confusione c’era nel mio povero cervello.
Come se ciò non fosse stato abbastanza per rendermi nervoso, il gelido ricevimento degli uomini aveva raffreddato completamente qualsiasi mio entusiasmo e un po’ dalla gran fame, perché in mezzo a tutta quella confusione di tutto m’ero interessato fuorché di riempire lo stomaco e molto dalla preoccupazione, quanto da tutti gli strani rumori che sentivo per ore ed ore mi girai e rivoltai cento volte sul lettino, finché vinto dalla stanchezza caddi in un sonno pesante ma agitatissimo. Forse dormii tre ore al massimo, ma sognando continuamente che gli uomini m’avevano circondato e mi davano un sacco di botte e che malgrado i miei sferzi non riuscivo a mettermi in salvo perché erano troppi e ogni volta che riuscivo a liberarmi, c’erano subito degli altri che mi raggiungevano.
Ai primi chiarori dell’alba, svegliato di soprassalto da violentissimi colpi battuti ripetutamente sulla porta mi fecero saltare a sedere sul letto. Mi toccai ero bagnato fradicio di sudore.
“Chi diavolo sarà.” Pensai subito e mettendo i piedi a terra in mutande e stropicciandomi gli occhi corsi ad aprire la porta.
Volteggiando in aria un nodoso bastone che aveva in mano, il capo assistente me lo puntò sul petto e sarcasticamente mi disse ad alta voce:
“Che sua eccellenza pretende di essere svegliato la mattina?”
Con un’occhiata m’avvidi che gli operai erano già saliti sui carrelli a mano e tutti in fila aspettavano soltanto l’ordine di partire.
“È da mezz’ora che cento e dieci uomini stanno aspettando i tuoi porci comodi, forza datti da fare, quì siamo abituati a rispettare l’orario e a lavorare sodo. Se non ti piace in mezzo a noi perché non sei rimasto dov’eri.”
Mi parlò con un tono alterato e provocante, ma sapendo di essere nel torto, rimasi calmo e umilmente offrendogli le mie scuse, gli risposi che nessuno m’aveva informato a che ora dovevo incominciare e che cosa dovevo fare.
“Non è che nessuno te l’ha detto, sei tu che non ti sei interessato di domandare” ribatté lui colpendomi ripetutamente col bastone sul petto.
Anche se non capivano parola per parola quello che diceva, dalle mosse e dalle smorfie che faceva, non era difficile per gli uomini rendersi conto che mi stava ridicolizzando e mentre un sordido mormorio di approvazione si elevava tra di mezzo a loro, qualcuno più spiritoso a voce alta gridò:
“Il signorino credeva di andare in vacanza.” E una risata beffarda e strafottente gli fece eco. L’aveva detto in dialetto calabrese, ma io l’afferrai lo stesso e mi fece così male, più male di tutte le ingiurie scagliatemi contro dal finlandese.
Dopo tutto lui era un estraneo e potevo essergli antipatico, ma loro erano italiani come me, della stessa terra che avevamo dovuto lasciare insieme, che parlavamo la stessa lingua e che invece di darmi di mano mi venivano contro. L’ira mi salì agli occhi e non mi ci fece vedere più. Brutti figli di puttane, risentono la mia presenza, mi odiano, mi deridono, ma almeno si può sapere quale è la ragione? Non li conosco, non li ho mai visti prima d’oggi ed è impossibile che abbia potute far loro del male. Si può sapere che razza di pomidori sono questi? Ero un povero agnellino in mezzo ad un branco, di lupi. Vedendomi così giovane, inesperto ed innocente, credevano di poter sfogare il loro risentimento sopra di me, ma s’erano sbagliato di grosso, non sapevano che se messo alle strette anch’io avrei tirato fuori i miei artigli, e abbozzai, abbozzai finché m’assistette la pazienza, poi quando anche quella m’abbandonò, all’assistente che incoraggiato dall’attitudine favorevole degli operai, continuava a babbiare incoerentemente, con un improvviso voltafaccia lanciai un grido che avrebbe fatte risuscitare i morti:
Basta, basta, hai capito? Li presi tutti così alla sprovvista che rimasero senza fiato e prima ancora che si rifacessero dalle shoc iniziale, m’ero infilato i calzoni, le scarpe, afferrai un taccuino e una matita, con un salto scesi a terra e m’andai a fermare naso a naso con l’assistente dicendogli:
“Eccomi quà, sono pronto.” Il suo viso cambiò colore, fece un passo indietro e giratosi verso gli uomini, come per accertarsi del loro appoggio, con l’intenzione di continuare lo spettacolo, mi rispose
“Non sei pronto no, ti manca la camicia.”
“Fatte li cazzacci tua, la camicia la metto quando fa piacere a me.”
“Oooo. Adesso fai anche l’impertinente, bada come parli.”
“No sei tu che devi fare attenzione a quelle che fai, agisci come prescritto e nessuno ti mancherà di rispetto.”
Era un mezzo palmo più alto di me, piuttosto magro ma muscoloso, roseo di viso e quasi calvo, quando parlava la dentiera di sopra gli si muoveva e mi sputava in faccia. Poteva avere i suoi quarantacinque anni e sarebbe potuto essere benissimo mio padre e mai e poi mai mi sarei permesso di parlare in quella maniera ad una persona più anziana di me, ma in quel momento non mi curavo più di nulla, anzi peggio che peggio, incurante del bastone che aveva in mano, mi alzavo sulla punta dei piedi e puntandogli il dito sul viso, lo pressavo spingendolo indietro pronto a divorarmelo. Ormai avevo perso le staffe, dalla rabbia le parole in inglese non mi venivano più ed ero passato all’italiano.
Il viaggio
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