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Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Ursula Galli è a Sydney, nell’anno 1991: è andata fino in Australia per inseguire un amore, ma cerca anche di mettere a frutto l’esperienza dal punto di vista formativo.
La notte precedente non avevo dormito ed ero gonfia di sonno, gonfi gli occhi, gonfie le mani, gonfi i piedi. Avevo passato molte ore attaccata al telefono, cercando di parlare con il docente con il quale mi sarei voluta laureare. Alcuni mesi prima mi aveva assegnato una tesi su Petrolini e mi aveva anche procurato dei libri, che non gli avevo ancora restituito. Ma poi io ero partita senza fargli sapere niente e lui sembrò piuttosto perplesso di sentirmi, quando finalmente riuscii a farmelo passare. Gli chiesi se, visto che ero in Australia, gli potesse interessare una tesi su un soggetto australiano. Non più di tanto, mi sembrò di capire, ma mi incoraggiò comunque a fare una ricerca su qualcosa che riguardasse il teatro australiano.
Sentire la sua voce, placò almeno un po’ la mia ansia. Avevo la sensazione che la mia vita avesse subito un rallentamento, anzi, un vero e proprio blocco. Volevo ripartire, da qualunque punto mi trovassi.
L’Università di Sydney era concentrata intorno ad una costruzione ottocentesca in stile gotico, simile alle molte università che si vedono nei telefilm americani. Studenti e insegnanti avevano un’aria molto informale, disinvolta.
Dovetti interpellare diverse persone, docenti e segretari, prima di trovare qualcuno disposto a darmi una mano. Il responsabile del dipartimento di letteratura australiana, capelli bianchi e camicia a maniche corte, con cravatta e l’aria piuttosto scocciata per il mio pessimo inglese, si sforzò comunque di capire le mie esigenze e mi indirizzò alla fine verso una ricercatrice di letteratura aborigena.
Un argomento non troppo approfondito in Australia, figuriamoci in Italia.
Una signora dalla pelle ambrata, il volto ossuto e gli occhi neri brillanti, mi accolse curiosa, con molta gentilezza, in una stanza piena di scartoffie.
Si chiamava Julie, mi comunicò con una vigorosa stretta di mano, lodando la bellezza dell’Italia, che aveva visitato qualche anno prima.
Indossava una gonna colorata, vagamente zingaresca, una lunga sciarpa di seta, orecchini etnici ed aveva una scrivania ingombra di fogli manoscritti e fotocopie, post-it, lapis mezzo rosicchiati.
Le spiegai brevemente che mi sarebbe piaciuto fare la mia tesi di laurea su un soggetto australiano e qualcuno mi aveva consigliato di occuparmi della letteratura aborigena.
“What about theatre?”, mi domandò, entusiasta.
In un fiume di parole scandite con chiarezza, mi raccontò che lei aveva origini aborigene, che da tempo studiava la drammaturgia contemporanea della minoranza aborigena e che lei stessa era una scrittrice, di testi di teatro.
Sapevo ben poco degli aborigeni, ma Julie in un’ora, mi riassunse la storia dei primi, sfortunati abitanti dell’Australia, sterminati dai colonizzatori inglesi.
La cosa che maggiormente mi scosse, fu il racconto delle famiglie divise, dei bambini strappati dalle madri e chiusi in orfanotrofi, dove venivano allevati senza sapere niente delle proprie origini, per diventare servitori, cuochi, manovali, senza diritti.
“Il teatro aborigeno, comincia come un pianto dal cuore diretto all’uomo bianco. È un pianto per la giustizia e per un rapporto migliore, un pianto per la comprensione, è la richiesta di essere capiti”, declamò Julie, piena di calore, citando un libro.
La sua passione mi convinse. Julie fotocopiò per me pagine e pagine di appunti, mi scrisse un elenco di testi che avrei dovuto cercare in biblioteca.
Poi mi invitò, per la sera stessa, ad assistere ad uno spettacolo in un piccolo teatrino off. “Like off Broadway“, commentò, scoppiando in una grande risata.
Mi strinse la mano con calore, mi dette un bigliettino con l’indirizzo del teatro e mi lasciò libera.
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