Gli stivaloni e il fango

Tutti con cui scambiavo due parole erano italiani, o figli o nipoti. Dicevano trovarsi bene, non gli mancava il lavoro e che la città stava crescendo a vista d’occhio, si capiva, si sentiva.

Facemmo un giro con un taxi, ma non ricordo di niente che mi colpisse particolarmente. Notai una città dinamica, dove tutti pensavano a lavorare, una città seria, austera e distinta.

Pareva che il tempo fosse migliorato e, ormai stanchi e con desiderio di arrivare e di sistemarci, ripartimmo. La strada cominciò decente, ma peggiorava. Riuscimmo ad arrivare in una località che si chiamava Paranà-Panema, attraversata da un grandioso fiume dello stesso nome.

Arrivammo sotto questo tetto benedetto, che sembrava un giorno di mercato: numerosi autisti in maglietta, con un asciugamano di spugna intorno al collo, riuniti in gruppetti, discutevano la strategia per il resto del loro viaggio, venivano da lontano e la loro meta era Maringà. Non ci sarebbe mancata compagnia: erano caricati delle più svariate merci. Al ritorno invece tutti avrebbero trasportato legname. Avevano fisici robusti, specie le spalle larghe e braccia muscolose, molto necessarie per guidare quei pesanti bestioni.

Gli stivaloni comprati a S. Paolo ci salvarono e ci permisero di uscire dalla macchina, si sprofondava nel fango, che camminando ci schizzava fino al viso. La strada si trovava bloccata e ci rifugiammo noi pure dal benzinaio indicatoci, che possedeva un alloggio.

La strada non era strada ma uno squarcio nella foresta, pareva addirittura un letto di un fiume secco. Il locale offriva camere a sei posti, ne occupammo una per noi tre, di sesso femminile.