I dubbi di un missionario

Ero stato destinato, senza alcuna mia partecipazione alla decisione, alle Filippine. La novità, certo, era stata notevole, così come la curiosità di cosa mi avrebbe riservato l’avvenire e anche – non mi vergogno a dirlo – una certa componente d’avventura. Ma a tenere uniti tutti i miei pensieri e a dare un senso al mio agire c’era il bisogno profondo di una vita diversa. Si cominciava a respirare l’aria del Concilio Vaticano II di cui non avvertivo appieno tutta l’importanza ma che sicuramente mi sollecitava alla ricerca di un impegno nuovo. Se la Chiesa doveva essere povera, la Congregazione salesiana doveva esserlo ancor più per le sue origini, la sua vocazione specifica in risposta ai grandi bisogni del mondo.

A Mandaluyong non trovai una situazione molto diversa da quella di cui avevo fatto esperienza in Italia. I circa tremila studenti del Don Bosco Technical Institute erano i figli della piccola e media borghesia di Manila. Con alcuni figli di hacenderos o di senatori. Lunghe file di vecchie Chrysler e Ford americane intasavano l’ingresso del cancello della scuola prima e dopo le lezioni. Erano quasi tutte guidate dall’autista e nel sedile posteriore c’era un bambino filippino, talvolta piccolissimo, col suo lunch-box e una cartella piena di libri “printed in the USA”. Oppure un vero grappolo di bambini perché le famiglie filippine, non importa di quale classe sociale, sono sempre molto numerose.