Mestieri
insegnanteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
CinaData di partenza
10.1936Periodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)I Bettoni, finalmente riuniti, si muovono da Shangai verso Nanchang, capoluogo della regione dello Jangxi.
Ecco! Eravamo finalmente arrivati! Dopo quasi un mese e mezzo di viaggio, dopo aver navigati tutti quei mari, aver percorso tutte quelle miglia, eravamo a casa. Le ultime ore le avevamo trascorse in treno; un lungo convoglio, composto da carrozze di terza classe, con le panche di legno, da carri merci chiusi ed aperti, ed un’unica vettura di seconda, con i divani imbottiti, coperti con vecchi velluti un po’ logori e stinti. La linea era a un solo binario. Solo le fermate frequenti, in piccole stazioni, consentivano il passaggio di un altro treno, nella direzione opposta. Erano per lo più convogli militari: portavano truppe e armamenti e andavano al nord.
Ad ogni fermata una folla vociante dava l’assalto alle carrozze, scontrandosi e lottando con quelli che dovevano scendere. Ceste di vimini, involti di ogni genere, bambini urlanti tenuti alti, sopra le teste, dalle madri, o appesi al collo in fagotti imbottiti, per proteggerli dalla calca. Alcuni soldati, presenti in ogni stazione, tentavano, con scarso successo, di mantenere la calma e un po’ d’ordine. […]
Poi la città: incominciammo a intravederla guardando dai finestrini: un ammasso grigio, lontano, di case basse, indefinibili per la forma e il colore. L’avvicinarsi via via non ci offriva maggiori dettagli. Mio Padre ci disse: “abbiate pazienza, vedrete, non è poi tanto male….!” Il treno stava rallentando; ora si vedevano lunghi edifici bassi, forse magazzini; attorno le risaie erano terminate; solo campi dove grigi bufali, dalle lunghe corna ricurve, pascolavano pigri, affondando nel fango spesso e scuro, pungolati da un contadino, con le spalle coperte da uno strano mantello lucido e rigido come una corazza, in testa il tradizionale cappello di paglia a cono, e le gambe rinsecchite lasciate scoperte per via dei pantaloni arrotolati sopra le cosce. Il treno si fermò e noi scendemmo mentre venivano scaricati tutti i nostri bauli, casse e valigie. Ma non vi erano taxi; mio Padre ebbe il suo bel da fare per organizzare il trasferimento nostro e di tutte le nostre cose alla nuova dimora. Dopo un lunghissimo contrattare con un numero imprecisato di conducenti di risciò, un po’ in inglese, un po’ con le poche parole cinesi da lui apprese dopo il suo arrivo, ma soprattutto a gesti, una lunga fila di risciò, appunto, carico ciascuno di un baule, una cassa, qualche valigia, ed altri, i migliori, i più nuovi, con seduti sopra tutti noi: mio Padre in testa, poi mia Madre, annichilita e un po’ preoccupata, un altro ancora con mia Sorella e mio Fratello, perplessi ma curiosi, infine io, per ultimo, a chiudere la lunga carovana, si diresse, come Dio volle, verso casa – “la nuova casa”- attraverso un dedalo di vie strette, piene di gente, che al nostro passare si fermava incuriosita, ad osservare questi stranieri […]. In quegli anni Nanchang era una città esclusivamente, tipicamente, cinese: ottocentomila abitanti, tutti del Celeste Impero; una scarsissima rappresentanza occidentale: qualche inglese, qualche russo, un Istituto cattolico di Suore Canossiane e poi, ultimi arrivati, gli italiani, tutti dipendenti della Società della quale faceva parte pure mio Padre; alcuni già con le loro famiglie, altri in attesa del loro arrivo, per un totale di circa un centinaio di persone. Li avremmo conosciuti tutti, da lì a qualche giorno, nel corso di un ricevimento ufficiale che la Direzione della Società avrebbe dato, come di consueto, per l’arrivo di nuovi ospiti.
Il viaggio
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