Mestieri
informaticoLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
YemenData di partenza
1994Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Mario Speranza è tornato nello Yemen per riprendere il servizio presso una Ong italiana. È il 1994 e il paese è in piena guerra civile.
A sera, quando raggiungo Sana’a, ormai tutti i segnali fanno temere il peggio. E’ ancora buio quando il richiamo del muezzin, per la prima preghiera del mattino, viene bruscamente interrotto da un fragoroso boato che scuote l’intera città. Partono immediatamente migliaia di scoppi e detonazioni, mi butto sul pavimento e provo a raggiungere, strisciando, le voci provenienti dalle scale interne da dove i miei amici mi chiamano con insistenza. Ci sediamo sui gradini, e attoniti ascoltiamo il finimondo che proviene dall’esterno. Sebbene ci aspettassimo il precipitare della situazione, nessuno di noi aveva mai pensato che tutto questo potesse accadere in Sana’a. Non capiamo cosa stia succedendo. Chi spara a che cosa, e chi risponde. Se si sta combattendo nelle strade o se c’è un incursione aerea. Naturalmente, non è il caso di affacciarsi dalle finestre. Un po’ per il fresco del mattino, un po’ per la paura, mi viene la pelle d’oca, ed ad ogni esplosione mi sento pervadere da un brivido. Sento il bisogno di andare in bagno. Seduto sul water osservo la piccolissima finestrella d’areazione, collocata giusto in fronte, in direzione dei miei occhi. Mi immagino seduto in una di quelle cabine automatiche che fanno fototessere, solo che a differenza del flash, mi aspetto un proiettile che mi immortali in questa poco decorosa condizione. Esco poco dopo dal cesso, e i miei compagni decidono di farne rapidamente uso anche loro. Finalmente torna il silenzio, il combattimento si è arrestato.
Andiamo sul tetto della casa ed osserviamo la città: tutto è immobile nell’odore intenso di polvere da sparo, da una finestra vicina, lo sguardo serio di una ragazzina, ci scruta interrogativo, come se noi, “stranieri”, potessimo spiegarle cosa sta succedendo. Nonostante in Italia siano circa le cinque del mattino, decido di parlare con Monica, immaginando che presto potrebbero cadere le linee telefoniche con l’estero. Non è facile svegliarla, e raccontarle, cosa stia succedendo senza metterla in allarme. Infatti lei si spaventa, piange, ma non ho neanche il tempo di tranquillizzarla che la comunicazione si interrompe e resto lì a chiedermi quando potrò riabbracciarla. Fuhad ci riferisce del radio giornale: c’è stata un’incursione di cacciabombardieri provenienti dal sud Yemen, che hanno avuto, tra i più importanti obiettivi il palazzo presidenziale e l’aeroporto di Sana’a, pare che un razzo abbia sfiorato un aeromobile della Rojal Jordan, che con ostinazione, aveva deciso di decollare nonostante il parere negativo degli yemeniti. Con la sua parlata lenta e un po’ strascicata ci annuncia anche che a partire da questa sera ci sarà il coprifuoco: dalle 21.00 all 6.00 del mattino. Fuhad ha solo la mia età ed anche lui ha dei figli, ma non sembra partecipare molto agli eventi. È’ somalo e questi primi 36 anni li ha trascorsi in mezzo a vicissitudini che forse io faccio fatica persino ad immaginare.
Ma è riuscito pure a laurearsi, poi però, qualche altra tempesta lo ha sbattuto su queste coste proprio di fronte alla sua terra, ed ora, con sufficiente distacco lavora come impiegato per il nostro progetto e condivide la nostra avventura, con l’aria un po’ seccata di chi ora dovrà condurre i propri traffici tra ancora maggiori difficoltà. Usciamo e ci avviamo verso il mercato del Gha; in strada i bambini giocano a fare la guerra, e mentre si rincorrono facendo il verso degli spari, gridano il nome del loro presidente Ali Abdallah Saleh, ai loro occhi, sicuramente invincibile e vittorioso. I negozi sono aperti, ma con le porte socchiuse hanno un’aria dimessa. Su quasi tutti gli edifici pubblici sono comparse le batterie contraeree e per le strade transitano in continuazione automezzi militari. Ora osservo con minore benevolenza, le cisterne di accumulo dell’acqua situate sui tetti delle case, che prima di questi eventi consideravo creazioni ingenue che facevano sorridere: assemblate da fantasiosi lattonieri, a forma di missile o aereo e dipinte nei colori della bandiera yemenita, testimoniano dell’esaltazione retorica di patria ed esercito. Culto che in queste ore appare offuscato dalla preoccupazione sui volti delle persone che incontro o dalla paura dei molti giovani come l’amico Naj, che sta facendo il servizio militare in Sana’a e teme di essere mandato a combattere contro i suoi stessi fratelli in questo conflitto che non può che essere definito “guerra civile”. Aspettiamo con preoccupazione che arrivi la sera, e mentre stiamo terminando la cena, la contraerea inizia a illuminare il cielo. Ci troviamo così tutti intorno al tavolo, a finire frettolosamente il cibo al lume di candela, infatti, hanno interrotto l’erogazione di energia elettrica. Mentre ci attrezziamo di torce per raggiungere il nostro rifugio sotterraneo, il nostro capo progetto, continua tranquillamente a cenare. Raimondo è un “veterano”; ha vissuto per più di trenta anni in Africa, in quell’Africa ancora sotto il dominio coloniale, e che ci racconta, si chiamava Katanga. E’ fuggito molte volte tra massacri e compagni lasciati sul terreno, pertanto, queste serate a lui non fanno più effetto dei botti di una festa patronale. Non riusciamo a convincerlo a seguirci e per dimostrarci la serietà delle sue intenzioni, lui comincia a prepararsi il comodo letto nella foresteria. Nei vicoli bui che portano al nostro rifugio, incontriamo gli abituali venditori che con aria rassegnata stanno chiudendo anzitempo le loro botteghe e non rinunciamo al vicendevole saluto rituale: Laila saida (notte felice, ndr)!
Certo è un forzatura definire questa notte “felice” e quest’ultima esplosione minaccia di farne una notte drammatica. Eccoci “al sicuro, nel nostro bunker”. Però la tensione cresce perché una fortificazione, persino la più solida, in realtà non fa che renderci prigionieri. Così sono come un bambino quando sento il canto che il vicino di casa, accompagnandosi al tocco struggente del suo Hud (liuto, ndr), libera tra le scie luminose dei proiettili traccianti. La sua melodia scioglie i nodi della paura e diventa la colonna sonora delle immagini che essa stessa rievoca, la mente si libera nel ricordo degli straordinari momenti vissuti in questo angolo di Arabia che Pasolini definì “favoloso Medioevo”.
Il viaggio
Mestieri
informaticoLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
YemenData di partenza
1994Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Gli altri racconti di Mario Speranza
Yemen, sotto le bombe
Dal fragore e dalle vibrazioni, si direbbe caduto non lontano da qui. In questo istante può...
L’escalation della guerra
Tutto è iniziato al mio ritorno a Sana'a. A bordo di un Airbus proveniente dal Cairo,...
La vita nello Yemen
L'isolamento. E' questa la sensazione che ho provato la prima volta che ho raggiunto questo posto....