Mestieri
dirigente scolasticoLivello di scolarizzazione
licenza scuola media superiorePaesi di emigrazione
LibiaData di partenza
1936Periodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)In una memoria sugli anni vissuti in Libia, ai tempi colonia italiana, Alfonso Casadio ripercorre alcune tra le esperienze più significative che hanno segnato l’epoca della sua giovinezza: nel 1936 ha 20 anni, è in cerca di avventura e respinge l’idea di definirsi “colonizzatore”. Alfonso si trova a Hon, un piccolo agglomerato che si trova al centro di una oasi, circa a metà strada tra Sebha e Sirte sulla costa mediterranea, nella regione del Fezzan. E lì che svolge funzioni di dirigente presso una scuola italo-araba.
Quella mattina udii un rumore che non conoscevo. Infatti dopo circa un quarto d’ora – la pista era molto insabbiata – giunse davanti alla scuola una vecchia «Balilla» con una damigiana d’acqua legata dietro e molti bagagli sopra. Ne scese un uomo di una quarantina d’anni con la barba nera. Venne verso di me sorridendo e si presentò: «T. L., geologo». All’udire quel nome mi si risvegliarono lontane reminiscenze scolastiche: le grammatiche di G. L. in uso nelle scuole del regno e gli domandai se fosse suo parente: «Sì, sono il nipote» rispose. Lo feci entrare in casa e subito cominciò una cordiale conversazione con mia madre. Anche lui era bolognese come noi, anche lui era andato da ragazzo nella stessa scuola in cui era stata lei e scoprirono qualche comune conoscenza. Mentre parlavano mi ricordai di quel geomante e mi rammaricai per la scarsa fiducia che, forse involontariamente, gli avevo dimostrato. Era dav-vero il quarto giorno, aveva davvero la barba, in quanto al termine «parente» considerai che Bologna era un comune fra migliaia d’altri in Italia, che erano cresciuti nella stessa via fra le tante che ci sono a Bologna. La parola ‘parente’ a parte la possibilità di un’affrettata e inesatta traduzione, appariva quindi più che rispondente alla circostanza. Specialmente se usata laggiù, nel deserto, a migliaia di chilometri. Il prof. L. era in missione nel Sahara quale funzionario dell’Ufficio Geo-logico di Tripoli. Conosceva bene il greco antico, il latino, l’arabo, l’ebraico, l’inglese e il francese. E, naturalmente, ancor più la sua materia. Tornò altre due o tre volte con mio manifesto piacere perché lo tempestavo di domande. Una notte mi portò con sé nell’oasi, accese una lampada a petrolio e ci mettemmo a chiacchierare. Non passò molto che attorno a quella luce si raccolse un nugolo di insetti di ogni specie; ogni tanto ne catturava uno e lo chiudeva in un vasetto. «Vede — mi disse – il deserto sembra, ed è considerato da tutti, un regno di morte e di desolazione invece non può immaginare quanto sia ricco di vita nascosta». Successivamente Io condussi al pozzo del Diavolo raccontandogli quella leggenda, e, giunti in prossimità del cratere, mentre io parlavo, più volte si chinò a raccogliere dei sassolini individuati, con l’occhio dell’esperto, fra le migliaia sparsi dappertutto. «In questa zona — mi spiegò — in tempo arcaico c’era una fabbrica di selci paleolitiche che servivano per fare acciarini e punte di freccia: probabilmente anche piccoli coltelli». Infatti, gli raccontai, fin dalla prima visita a quel pozzo, B., raccolti due piccoli cintoli, mi aveva insegnato ad accendere il fuoco percuotendoli accanto ad alcuni arbusti secchi e soffiandovi sopra. Lo condussi nella grotta e notai che l’osservava con molto interesse. A un tratto gli mostrai alcune vertebre che avevo accantonato per portarmele a casa e egli, dopo averle attentamente osservate, mi domandò se avessi voluto dargliele. Gliele offrii volentieri. Anni dopo, visitando il Museo dell’Africa ex italiana a Roma, le vidi in una bacheca con la dicitura: «Appartenenti a specie sconosciuta – Reperite in Libia». Ne provai una piccola soddisfazione: tutta quella fatica speleologica era valsa almeno a corredare la bacheca di un museo.
Il tesoro dunque c’era ma arrivai troppo tardi. Trovai soltanto delle ossa che finirono in un museo. Ma non fu una delusione. Avevo vissuto alcune giornate diverse dalle solite: era sceso, con la mia esaltazione giovanile, nel buio di una grotta e nella profondità dei secoli e dei millenni animato dal sogno di sempre e di tutti: scoprire un tesoro. Ancor oggi è vivo il ricordo di quello spazio illimitato, quel silenzio, quello splendore di colori che si irradiava ovunque, anche sulle dune, dal primo al secondo crepuscolo del giorno, quelle notti e quell’indescrivibile firmamento che mi faceva sentire non sotto le stelle ma fra le stelle; quel silenzio di pace che la notte dava all’ululato lontano di uno sciacallo il tono di una voce amica o di un canto. No: nel deserto non ci si annoia. Si vive, si vive molto perché esso ha il magico potere di esaltare tutta la vita che è dentro di noi. Oggi troppo spesso e troppo pesantemente soffocata e distorta da questa indefinibile civiltà che, qualche volta, mi fa rimpiangere quel mondo di allora in cui potevo vivere senza leggi e senza confini se non quelli imposti dalla natura, dalla morale e dal buon senso. Non ero un Colonizzatore. Non ero l’uomo bianco in Africa. Ero libero. E avevo vent’anni. Ero in Paradiso.
Il viaggio
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LibiaData di partenza
1936Periodo storico
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