Pettegolezzi

Cresciuta a Bellagio, in una famiglia con radici contadine, un’aristocrazia campagnola, allevata nel rispetto del lavoro, aveva il senso pratico della vita, il gusto per le cose solide e durevoli, non amava la frivolezza, ne tantomeno i risvolti Dannunziani così in voga a quei tempi, e così in auge nel ristretto circolo coloniale. La lontananza dal luogo d’origine, non aveva alterato la sobrietà della sua natura. Imperterrita e testarda indossava i tailleurs malgrado il caldo torrido, anacronistica, quasi provocatoria, sudava sotto i cappellini aderenti, e invidiava segretamente la disinvoltura di chi si spogliava facilmente degli abiti e dai pregiudizi, comprese le negrette che non ancora adolescenti buttavano via le pezze, e cariche di anelli, ma nude come vermi ammiccavano spudoratamente ai colonizzatori. G., mia madre, si sentiva estranea in quel contesto persino davanti al deserto, quella visione sovrannaturale di pianeta spento, chiusa in casa, la maggior parte del tempo, sospettosa tra le domestiche di colore che circolavano, al riparo dalla disperata violenza del sole e dalle insidie dei pettegolezzi che alimentavano la sua gelosia nei confronti di S. suo marito, che incurante e strafottente, seminava cuori infranti come si conveniva al maschilista dell’epoca. Era inevitabile che diventassero ben presto la coppia più chiacchierata della Colonia. L’audacia, le avventure di guerra e il cuore in continuo tumulto per qualche avventura galante, fecero di mio padre il clou del pettegolezzo salottiero, la gelosia di mia madre rendeva interessanti i suoi intrecci amorosi.