Paesi di emigrazione
CroaziaData di partenza
1946Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Arriva finalmente il momento in cui Sonia e la madre, dopo due anni, possono rivedere il padre arrestato e incarcerato nell’isola di Goli Otok, in Jugoslavia, perché considerato avverso alle politiche del maresciallo Tito.
Finalmente, attraverso l’altoparlante cominciò l’appello. Sentimmo il nostro nome. Mia madre mi prese per mano e con l’animo in tumulto ci inviammo in direzione del casermone, come fecero gli altri che erano stati chiamati prima di noi. Un poliziotto, ripetendo il nostro nome, ci accompagnò dentro il casermone. A lui si doveva lasciare la nostra borsa con le poche cose che avevamo messo insieme, scelte accuratamente per il papà. Fra queste c’erano anche le sigarette tanto desiderate da lui. Mia madre, anche se riusciva appena a parlare dalla paura, spiegò al poliziotto, quasi balbettando, che cosa avevamo nella borsa. Lo guardammo con occhi imploranti. Non so come fece a capire mia madre, che gli aveva parlato in italiano, ma era giovane e nel suo cuore era rimasta ancora un po’ di umanità. Aprì la borsa, tirò fuori i pachetti di sigarette, forti e grezze, e disse in italiano: “Io dare lui”. Questo suo atteggiamento indulgente ci tranquilizzò. Poi ci condusse attraverso un corridoio stretto in uno stanzino triangolare, di circa quattro metri quadrati. Senza parole, mia madre ed io ci sedemmo sopra una panca. Restammo sole. Il cuore cominciò a battere forte ed il respiro cominciò a mancare, il momento tanto atteso dell’incontro stava per avverarsi.
Entrò mio padre accompagnato da un poliziotto. Ci alzammo di scatto, la sua figura era quasi irriconoscibile. Allargò le braccia scarne e ci strinse tutte e due sul suo petto. In quel momento nessuno di noi disse nulla. Con il respiro rotto dall’emozione, restammo a lungo abbracciati piangendo. Mia madre, vedendo mio padre con l’aspetto mutato in modo sconcertante, (pesava forse 35-40 chili), nell’impeto del sentimento, gli stava per dire quello che le veniva dalla mente alle labbra: “Cosa ti hanno…”. Ma mio padre intuì di colpo quale sarebbe stata la sua domanda e le impedì di proseguire, dicendole: “Sto bene, ho soltanto lo stomaco che alle volte mi fà male, ma non è niente di preoccupante”. Era così evidente che non diceva la verità. Intanto, il poliziotto stava nell’angolo dello stanzino e ci guardava con uno sguardo cattivo e sospettoso. Senza avere più la forza di continuare il colloquio ci sedemmo assieme al papà, io alla sua sinistra e mia madre alla sua destra, tenendoci per mano.
Poche furono le cose che riuscimmo a dirci. Il tempo di 15 minuti, concesso per la visita, era scaduto. Tutto finì quì. Un’altro forte abbraccio e i nostri volti si bagnarono di lacrime. Il poliziotto fece cenno a mio padre di uscire. Vidi che voleva dirci ancora qualche cosa, ma il poliziotto non dimostrò ne tolleranza ne comprensione. Mio padre uscì senza voltarsi. Il mio pensiero: “Chissà se lo rivedremo mai più?” fù sicuramente anche il pensiero di mia madre, ma non ce lo confidammo per non affliggerci a vicenda ulteriormente. I segni di un trattamento violento erano troppo evidenti su di lui. Eravamo così stordite ed avvilite da quanto avevamo visto che il ritorno a Fiume con la nave ci sembrò breve. I nostri compagni di viaggio non erano silenziosi come all’andata. Tutti parlavano ad alta voce senza tener conto dell’equipaggio che con sguardi malvagi seguiva i loro discorsi. Erano talmente spaventati e angustiati dai dubbi che sui prigionieri venissero eseguite delle mostruose atrocità, che non riuscivano a soffocare il proprio rancore, la propria rabbia, anche se sapevano che per questo comportamento avrebbero potuto venire perseguitati pure loro dalla polizia segreta, l’Udba. Nel nostro ritorno a casa tutto si ripeté nello stesso modo: la notte insonne nella sala d’aspetto, il viaggio faticoso da Fiume e Lussino, con il mare in burrasca, l’arrivo a casa in un pomeriggio freddo e piovoso e la stanchezza dell’anima e del corpo.
Il viaggio
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