Mestieri
giornalistaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
MozambicoData di partenza
1984Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Ivanna Rossi coglie al volo l’occasione per intraprendere un viaggio in Mozambico, al seguito di una delegazione del consiglio comunale di Reggio Emilia di cui nel 1984 fa parte.
Il Governo del Mozambico ha invitato il Consiglio comunale di Reggio alle celebrazioni del 25 settembre, ventesimo anniversario della Liberazione del paese dalla dominazione portoghese. Riesco a prendere l’aereo per la coda. Non ho il visto, non ho fatto le vaccinazioni e non ho neanche le valige, le ho fatte a pezzi a forza di viaggiare. Riesco a risolvere tutto, non so come, e a partire dopo aver fatto due ore di scuola. Vicino all’assessore Umberto Venturi prende posto un missionario molto loquace che gli illustra la gravità della situazione. Stiamo tutti a sentire. Dice che la popolazione detesta il regime perché soffre la fame; perché è proibito circolare per la città vestiti di sacchi (questa non la capisco); perché è stata ripristinata la pena di morte e la flagellazione pubblica. L’analfabetismo sarebbe al 90%. Parla anche della guerriglia condotta dal ReNaMo, che nella sua illustrazione appare come una frazione moderata del FreLiMo (Frente Libertaçao de Moçambique), e invece a noi risulta sia tutt’altra cosa, cioè una formazione anticomunista che riceve finanziamenti internazionali dagli Stati Uniti e dal Sudafrica.
Vicino a me si è seduto Giovanni Chierici. Durante la notte non chiude occhio e non sta fermo. Cerca di tenermi sveglia fischiettando, stropicciandomi la testa o soffiandosi sonoramente il naso, oppure urlando forte: ‘Tu, riesci a dormire?’ Va continuamente in bagno a fumare e quando ritorna mi scavalca, mi sveglia e me lo trovo a cavalcioni. Vuole parlare e commentare le notizie, e ripete: ‘Avremo fatto bene a venire?’ Attraversiamo un temporale, sono lampi e tuoni per dieci minuti e più, con le cinture allacciate. Da quassù mi figuro l’Africa come un grande canestro sotto l’Europa, e immagino l’equatore come una linea fosforescente.
Abbiamo una gran fame. La hostess offre una caramella a ciascuno, per farci stare buoni. Brutto segno, pensiamo. Poi invece si mangia benissimo. Facciamo molto caso al cibo, non solo per sopravvivere noi, ma anche per sapere come vivono i nostri ospiti e come ci considerano. Gli uomini parlano di avventure erotico-esotiche, sembra d’obbligo.
Quando atterriamo all’aeroporto di Maputo, ad accoglierci c’è il sindaco Alberto Massavagnane, un tipo basso e corpulento, col viso piatto e il corpo complessivamente trapezoidale; vari addetti d’ambasciata, assessori, protocollo. Ci fanno accomodare in una sala d’aspetto riservata, con qualche pretesa di eleganza. In un angolo ci sono soldati di guardia in tenuta mimetica, col moschetto imbracciato. Non sono lì per noi, ma come picchetto d’onore per un gran numero di salme che stanno arrivando da tutto il Paese, e vengono sistemate nella sala attigua alla nostra. Ci allarmiamo. No, non si tratta di vittime recenti, bensì dei corpi degli eroi della prima ondata rivoluzionaria contro il colonialismo portoghese, da cui il Mozambico si è liberato nel 1975, per poi piombare subito nella guerra civile.
Dopo strette di mano circolari interminabili (noi siamo otto e anche loro sono tanti), ci conducono al Polana, un albergo in stile liberty portoghese, con pareti intonacate alla spagnola e rivestimenti di mogano. La hall ha una vetrata che dà su una piscina azzurra. L’Oceano Indiano in fondo al parco invece è grigiastro e poco invitante. Ci regaliamo subito un paio d’ore sdraiati lì, sotto un sole fortissimo. A pranzo c’è aria di risparmio, tipo nouvelle cuisine. Il menù è amplificato dalla proposta contemporanea della lista del pranzo, della cena, dei dolci, dei vini con relative traduzioni. Anche la cucina è poi così: un pezzetto di carne è amplificato da creme; la minestra è purea liquida di patate colorata con carote o altro; due palline di pane vengono servite in un piattino piccolissimo. Ne metto una nella borsa, voglio portarla a casa per ricordo e decido di non lasciarlo in camera. Magari fa gola alla cameriera.
Alle 14.30 partiamo per la prima cerimonia. Attraversiamo una landa brulicante di bambini scalzi, di donne coloratissime con fastelli di legna, bidoni o sporte sulla testa, proprio come in un reportage fotografico sull’Africa. La terra non è definita da nessun cordolo di cemento, colata d’asfalto o linea di urbanizzazione. Terra rossa come di spiagge in declivio ai lati di una strada di polvere. C’è il silenzio desolato delle brughiere che aspettano le ruspe. Le persone sbucano da cespugli e ciuffi d’alberi; sono tante, tutte a piedi. Trasportano qualcosa, senza fretta; altre stanno lì a guardare quel che succede, cioè niente. Abbiamo passato la notte senza dormire, ma ci toccano ugualmente tre ore in piedi al Mausoleo eretto in onore degli Eroi della Rivoluzione. La cerimonia si svolge con innaturale lentezza perché gli Eroi sono tanti, e ci vuole un certo tempo a entrare nell’Eternità.
Il viaggio
Mestieri
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