Mestieri
giornalistaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
MozambicoData di partenza
1984Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Il viaggio di Ivanna e dei membri del consiglio comunale di Reggio Emilia in Mozambico, nel 1984, entra nel vivo. Molte esperienze e molti incontri ruotano intorno alla situazione politica locale, che risente degli effetti della guerra civile in corso.
E’ domenica, voglio andare a messa a sentire che atmosfera c’è, che cosa si dice delle ventilate persecuzioni. Prima però facciamo la nostra prima colazione. Cominciamo così una dieta a base di ananas e banane, non è un gran sacrificio. La chiesa ha la forma di un’unica guglia in cemento e vitreaux con una base molto larga. Vuol rappresentare una capanna sotto il sole. Ci sono suore italiane, neanche commosse a vederci. Cantano in portoghese. Fuori si possono fotografare fedeli in ritardo, bambini, mamme con neonati.
Ci concediamo una passeggiata alla Costa del Sol, lungo l’Oceano sempre grigio e mosso. Dalla sabbia spuntano radici forti e nere. Bambini ci offrono piccolissime vongole dentro piatti stagno. A pranzo c’è un trancio di cernia molto dura, accompagnata da un artistico ciuffo di purè di patate. Il ‘gaspacho all’andalusa’ è un brodo liscio di sentore dolce. Nella cucina mozambicana, o meglio, nella cucina internazionale dell’albergo, dev’esserci un capitolo su come insaporire variamente l’acqua. Si beve vino portoghese. Soncini è tutto agitato perché ancora non ci hanno comunicato il programma ufficiale. Forse teme che si dimentichino di noi. Si mette al telefono e finalmente trova il ministro giusto. Ci comunica che andremo a Pemba il 26 con un aereo militare. La cosa lo rallegra molto. Forse non ci sperava. Noi non abbiamo paura e ci preoccupiamo molto poco, abbiamo accettato con allegro fatalismo l’idea di perderci in Africa. Però, dato che siamo un Consiglio comunale, in quanto forze politiche attacchiamo Soncini per aver accettato questa soluzione senza nemmeno consultarci: ‘E’ pericoloso, per i banditi un aereo militare è un obiettivo, verrà attaccato di sicuro.’ In realtà non ci sono molte alternative, affrontare il viaggio sul cassone di un camion è certamente peggio. Soncini non se la prende, è sempre sorridente, nonostante i rimbrotti che il Sindaco gli rivolge in continuazione.
Due Peugeot bianche con autisti neri in divisa chiara ci portano in città. Le strade coloniali hanno grandi vetrine senza roba né commercio, sembra di essere nell’Est europeo. La stazione è un gioiello liberty, i palazzi sono stinti e sfarinati, non ce li additano neanche. I nostri ospiti ritengono più interessante lo stadio, una palazzina semidistrutta a colpi di mortaio da un attacco sudafricano (12 morti) e il mercato ortofrutticolo, fatto di gabbiotti di legno e lamiera. E’ pieno di gente che non vende niente e non compra niente. Sui banchi, cespi di indivie dure, foglie commestibili o fumabili, pesci secchi. Naturalmente tutti hanno la macchina fotografica e si scattano l’un l’altro foto ricordo in mezzo alla popolazione locale e al caniço. Come suggerisce il nome, il caniço è gruppo di capanne fatte di canne con qualche rinforzo di lamiera. La gente vive per lo più all’aperto, sulla terra rossa nuda. Le donne lavano i panni dentro una buca d’acqua scavata nella terra rossa in prossimità dei binari, tanto non passano treni. Seduta per terra, la gente aspetta l’autobus, che poi è un autocarro scoperto. Tutta la popolazione sembra occupata a guardare, e basta. ‘I più attivi-dice Chierici-camminano!’ Tutt’intorno ci sono quartieri di capanne che nascono come funghi direttamente dalla terra rossa. Fa caldo, molti di noi vanno in giro senza calze, come si fa d’estate. Ci avvertono però subito che nella polvere si annidano le matakenhas, insetti che si attaccano tenacemente ai piedi, per non parlare delle riquesias che danno una febbre altissima quindici giorni dopo la puntura. Appena in albergo ci disinfettiamo sempre mani e piedi, irresistibilmente.
Il signor Bartolini, che mi pare un operatore nel ramo dei trasporti, ci invita a bere qualcosa a casa sua, presidiata da due mozambicani laconici, non si sa se padroni di casa o persone di servizio. Stanno seduti davanti alla TV con un loro neonato grassoccio che dorme. La moglie del nostro ospite è russa, si chiama Lola. La loro figlia si chiama Natascia. Ci offrono grappa locale di pesca e noccioline di cajù salate. Ci mostrano un vassoio di conchiglie che sembrano pasticcini colorati, bignè, zuccherini, cioccolatini. Soncini spiega a noi europei com’è fatto un anacardio, cioè come una pera con la mandorla sporgente all’esterno. Bartolini ci racconta che i biglietti dei meticais sono stati usati come test politico. Se un prigioniero, costretto a scegliere, preferiva mille meticais con l’immagine del presidente Mondlane al biglietto da cento con quella di Samora Machel, attuale Presidente della Repubblica, correva il rischio di un’esecuzione sommaria. Mondlane era un padre della Patria e dell’Indipendenza, ucciso da un libro-bomba. Samora è vivo e lotta ancora. La conversazione spazia dai bandidos alle matakenhas alla TV, che alla domenica riceve i programmi sperimentali del Mozambico, per esempio adesso c’è un documentario sull’Indipendenza. Cambiando canale si prendono i programmi dello Swaziland e del Sud Africa. L’antenna è precariamente appesa al lampadario nella camera di Natascia, forse per non lasciarla in balia dei tifoni che arrivano in primavera. Al posto d’onore in salotto c’è un piatto dorato con l’effige del re dello Zambia, il mitico Sobousha, centodiciotto mogli e cinquecento figli. Una moglie all’anno gli veniva fornita dallo Stato, le altre erano frutto di libera ricerca. Ci dicono che anche a Maputo si donano figlie in segno di cortesia. Ne hanno offerto una anche a un prete, perché aveva fatto del bene a un quartiere. A Soncini non so.
Il viaggio
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