Mestieri
giornalistaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
MozambicoData di partenza
1984Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Nel 1985 Ivanna Rossi è in Mozambico, con una delegazione del consiglio comunale di Reggio Emilia, in viaggio per uno scambio culturale con le autorità locali. Tra le esperienze che vive, c’è quella non piacevole di un comizio del generale Chipande, esponente vicino al presidente Samora, che rischia di degenerare in un linciaggio.
Passeggio sul lungo bagnasciuga lasciato scoperto dalla marea, nella geografia provvisoria con corsi d’acqua e penisole, isolette e scogli, piccole dune ondulate, punti infossati dove i ragni d’acqua cercano rifugio. A un certo punto mi rendo conto di essere sola, dimenticata lì. Esco, sul retro c’è una macchina di rappresentanza, chiedo se va al comizio. Mi faccio portare in città. Non vedo i colleghi, mi trovo sola in mezzo alla folla degli indigeni. La sfilata è già cominciata. Davanti a me passano soldatini neri con cespugli in testa. Poi donne, con fiori di buganvillea in testa e vestito lungo. Trovo alcuni colleghi, sfiliamo insieme per ultimi, dietro al generale. Il palco è coperto di stoffe colorate e i pali di legno sono gentilmente ricoperti da foglie di palma e tralci di buganvillee. Davanti al palco, soldatini neri. Uno sembra ET, ma anche gli altri. Non faccio che fotografare, cominciando dai soldatini con stivaloni di gomma impolverati di terra rossa. Al sergente che dà i comandi manca un dente. Che razza di osservazione, sarà perché noi siamo abituati ai films di guerra americani, interpretati da attori con bocche perfette, bianchi o neri che siano. Tre soldati in prima fila hanno lunghe spade lucenti; altri tengono i fucili a baionetta in stranissimi modi, uno ce l’ha sotto un’ascella. Un soldato in prima fila, con il viso dagli zigomi larghi e pelle più chiara della media, spalanca uno sbadiglio enorme proprio in faccia al Generale impegnato in un discorso che non accenna a finire. I rami degli alberi formicolano di folla. Gente fitta e nera è stipata lungo gli orli del piazzale in leggera pendenza. Il discorso dura tre ore circa. Comincia con uno sketch surreale in portoghese e in makua su come si fanno i depositi bancari, con dimostrazione pratica. Il generale tira fuori dalle tasche alcuni meticais, li affida a uno che interpreta la parte del banchiere. Lui li custodisce e poi li restituisce con interessi ben visibili, in forma di banconote in più. Dopodichè il Generale si mette a leggere con sentimento un dattiloscritto che ha lo spessore di un libro, inframmezzato dalla traduzione in makua. Il portoghese lento è molto comprensibile per noi italiani, ma non per tutti gli indigeni. Il discorso comincia alla larga, con tutto l’excursus storico, dai rapporti di amicizia con Nyerere presidente della Tanzania dove si è fatto il primo congresso del Fronte di Liberazione del Mozambico (FLM), fino all’uccisione di Mondlane dopo il II° congresso, in cui si erano delineate due posizioni contrapposte e divergenti. Enumera le zone fino’ora liberate, a cominciare da Pemba, e ricorda l’esodo dei Portoghesi. Ogni tanto un coro femminile si esibisce come intermezzo. Tra le cantanti ce n’è una bella, con una coda di cavallo tutta a treccine, e una vecchia, con un copricapo a falpalà rossi. Le canzoni sono del tipo: ‘W Moçambique!’ o ‘W el Marechàl’ e vengono eseguite in modo un po’ scolastico. Per movimentare vengono anche eseguite marcette militari, che sollevano gli animi e la povere rossa. I soldati non hanno imparato la destra e la sinistra, fanno dei dietrofront sbagliati e all’alt si trovano disposti a casaccio, faccia a faccia oppure voltati a rovescio. A stento ci tratteniamo dal ridere. Il Generale, imperterrito, va avanti nel suo discorso. Parlando del recente passato, dice che Pemba era una città devastata, abbandonata e sporca. Ora tutto è stato ripristinato e ridipinto e chi non terrà pulita la sua casa pulita verrà allontanato e mandato a farsi la capanna altrove. Li minaccia sorridendo e tutti ridono. La Pina ci sussurra che lui però lo farà davvero, ‘perché quel che dice fa.’ Non ha finito. Ora si mette a interpretare uno sceneggiato sulla sicurezza del Paese, usando una didattica elementare come si fa coi bambini. Chiede: ‘Siamo sicuri qui?’, per dire ‘non abbiamo paura di subire attacchi alle persone e alle cose?’ Rispondono: ‘Sìì’, e lui ripete la domanda e loro danno la stessa risposta per farlo contento. ‘Ci sono problemi di banditi?’ insiste. Sa che in giro ci sono boatos, balle, dice, e vuol sapere in quanti le hanno sentite, e se la gente davvero non si sente sicura. Solo dopo questa spiegazione molti osano alzare la mano. E’ quel che voleva il Generale: senza la loro ammissione la sceneggiata che ha predisposto non funzionerebbe. Adesso sorride sornione, come chi ha in serbo una sorpresa, un regalo: ‘Dimenticavo, ho qualcosa da farvi vedere!’ dice, e comanda di condurgli un gruppo di banditi che sono stati catturati. Urla della folla. Boati, mani tese, agitazione di alberelli tagliati e usati per difendersi dal sole. Al suo cenno si avvicina a marcia indietro un camion carico di soldati che tengono di mira con il moschetto un groviglio di gente a testa china in piedi sul cassone. Il camion procede piano minacciando da vicino le donne in prima fila, che non riescono ad arretrare perché pressate dalla folla vociante. Il Generale in persona dà ordini su come girare il volante per fare marcia indietro in modo che il camion possa posizionarsi a tre metri dal palco, proprio davanti a noi. Scatto le ultime due foto del rullino con mani tremanti per l’agitazione, cercando di non far cadere gli obiettivi che cerco di cambiare. Si incastrano storti. La folla è eccitata al massimo e continua a confluire e a premere. Il generale illustra i crimini dei prigionieri, che ascoltano col volto inespressivo in piedi sul cassone: ‘Sono vostri figli, fratelli, parenti. Hanno ucciso, tagliato orecchie, seni alle donne. Sono stati condannati a morte perché hanno rifiutato il nostro perdono dopo il trattato col Sudafrica, e sono passati già 4 mesi. Che cosa dobbiamo fare di loro?’. ‘Matàr! matàr!’ urlano tutti, bambini compresi.‘Qui e subito’, è chiaro, davanti a noi. Il generale non li contrasta. Dolcemente, tenendo le redini in mano, prova a far sbollire la pressione eccessiva da lui provocata comandando scariche di ‘w il Frelimo’ o ‘a luta continùa’. Infine grida: ‘Noi non vogliamo insozzare la giornata della nostra festa!’ ma niente, la folla non si placa. Allora lui dice: ‘Sono degli emarginati, ignoranti e assassini. Il problema non è punire loro, ma chi li organizza. Dobbiamo punirli, però legalmente. Rispettiamo la legalità rivoluzionaria. Vi fidate dei vostri dirigenti?’ La folla deve rispondere di sì e così il Generale fa andar via l’autocarro. Noi tiriamo un sospiro di sollievo, per lunghi minuti abbiamo avuto paura di dover assistere a un linciaggio, e poi di essere linciati anche noi perché non eravamo d’accordo, per esempio il sindaco Benassi voltava ostentatamente la schiena alla scena e al Generale. Io no, volevo vedere tutto, ma mi ripetevo: ‘No, questa è un’allucinazione’ pensavo che mi avevano eletto nel Consiglio comunale di una tranquilla città di provincia.
La Pina, nostra traduttrice, la pensa come noi e aggredisce il generale: ‘Non si possono trattare così i bambini e gli altri popoli.’ Ai bambini infatti si è prospettato il gioco cruento e molto divertente di matàr. ‘Gli altri popoli’ saremmo noi e tutti gli invitati alla Festa della Liberazione. Chipande si rende allora conto che noi siamo arrabbiati e stravolti. Si stringe nelle spalle e dice: ‘Soncini, cosa dobbiamo fare? quelli uccidono!’ I soldati restano lì, il sole illumina solo le labbra sporgenti di quelli in prima fila. Noi torniamo a casa con la bocca e secca e le gambe tremanti. Spieghiamo ai consiglieri di Pemba che ci accompagnano che non tutta la nostra delegazione è composta da ‘compagni’, a parte il fatto che neanche i compagni sono favorevoli a matàr. Aggiungiamo che il nostro sindaco si sente prigioniero perché il nostro volo è già stato spostato di un giorno. Loro ci promettono che partiremo sabato mattina. Lo promettono, ma ci sarà il carburante? Noi facciamo presente che potrebbe essere la fine di ogni rapporto, di ogni aiuto, proprio adesso che si è stabilito un accordo sulle cose da fare. Li salutiamo e subito dopo andiamo metterci a mollo nell’acqua, chinati nella bassa marea. Camminiamo semisommersi a 4 zampe, perché il mare è andato lontano. Stiamo lì a raccontarci e a commentare la scena a cui abbiamo assistito, ci liberiamo piano piano dalla tensione, sghignazziamo perfino, è indispensabile.
Il viaggio
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