Mestieri
videomakerLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
BoliviaData di partenza
2008Data di ritorno
2009Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Gabriele Camelo è in Bolivia con il Vis per un progetto di reinserimento sociale dei ragazzi di strada. Racconta la prima uscita fatta come operatore con una collega a Santa Cruz.
Oggi la prima esperienza in strada: mi accompagna un’operatrice, Carmen, una robusta boliviana trentenne, di poche parole, che va in strada con l’obiettivo di conoscere i ragazzi e cercare d’indirizzarli in strutture dove possono iniziare un percorso. Con sé porta sempre una valigetta dei medicinali: per strada le ferite sono ricorrenti, i ragazzi spesso si autolesionano.
La strada è mille volte quello che già avevo percepito.
Sangue, ferite, pus, sporcizia, piedi e mani nere, canali, droga. E occhi da bambino – occhi buoni.
Daniel mi vede da lontano, sta aspirando la colla, e mi riconosce subito (mi avrà visto a Techo), da sotto il canale agita la mano, per salutarmi, sembra contento.
Scendiamo nel canale. Una decina di ragazzi dormono, tramortiti dalla droga. Daniel è l’unico sveglio, ha un occhio nero e gonfio. Accanto a lui, una donna, donna di strada di quelle di cui l’età è impossibile da riconoscere. E’ seduta accasciata su di sé, la testa fra le gambe ed un fiume di capelli sporchi coprono il corpo, ma lasciano scoperte le mani: unghia e smalto rosso semiscrostato, ed il nero della strada che la ricopre. Daniel chiede subito di venire via da lì, chiede di venire con noi. Carmen è fredda, non so, non la capisco, io lo prenderei e lo porterei subito via, vieni qui Daniel, dammi la mano e andiamo, eppure mi freno, cerco di capire perché Carmen sia fredda e perché gli risponde che non può portarlo via, che sarebbe ripassata l’indomani. Guardo i suoi occhi da bambino, portiamolo via Carmen, vorrei dirgli, portiamolo via subito. Ma non posso far nulla.
Ci allontaniamo. Daniel mi sorride, con i suoi occhi da bambino e un occhio nero, e mi saluta, una mano si muove e dice ciao e l’altra continua a tenere la colla vicina al naso. Da sopra il canale, l’ultima immagine che vedo è una manina sporca che si muove: ciao.
Ci allontaniamo, in cerca di altri ragazzi, mi volto e vedo Daniel che ci segue, è uscito dal canale: ci segue per un pezzo, colla sotto al naso, Carmen è fredda, lo lascia indietro. Più tardi le chiedo come mai non lo avessimo preso e portato via. “Daniel voleva andare in un centro di accoglienza dove ora lo rifiutano: più volte è stato accolto lì, e più volte è scappato trascinando in strada altri bambini, che pure avevano iniziato un percorso”.
Camminando fra canali, stradoni e marciapiedi io e Carmen facciamo amicizia, io le insegno un po’ d’italiano, ed improvvisiamo delle scenette. Poco prima di arrivare a Patio incontriamo tre ragazzi grandi, accasciati sul marciapiede: uno di loro ha più ferite addosso, e uno squarcio, letteralmente – squarcio– sul braccio. Carmen non sembra sorpresa, di questo sangue, delle ferite allucinanti, dello squarcio: apre la valigetta e cura il ragazzo, per come può. Guardo il ragazzo negli occhi. Guardare negli occhi ha molto senso: gli occhi hanno qualcosa di particolare. Gli occhi fanno capire molto, di una persona. Gli occhi servono per guardare, ma in realtà permettono di essere guardati, anche. Quello che vedo dentro questo ragazzo è brutto: è un ragazzo che negli occhi, dentro agli occhi, è distrutto.
A Patio incontro Cristopher, che è di poche parole. Con lui devo recarmi in Granja (la fattoria dove lavorerò, e dove i ragazzi di strada, quando decidono d’iniziare un percorso, passano un anno della loro vita nel tentativo di imparare a reintegrarsi, immersi nella natura). Granja Moglia si trova ad un’ora di viaggio da Santa Cruz, viaggio che passiamo in silenzio – un silenzio impenetrabile. Le mie domande non sciolgono la freddezza/tristezza di Cristopher, ma poco prima di arrivare, tiro fuori la macchina fotografica. Cristopher è timido, eppure la macchina fotografica ci unisce pure nelle parole non dette e scioglie le parole incatenate, Cristopher mi fa la sua prima domanda: “com’è fare l’arbitro in Italia?”. Con Cristopher facciamo decine di foto, e scendendo dall’assurdo pullman camminiamo, macchina fotografica in mano, nel buio della campagna, con la luna con noi.
Click click click.
Alla Granja conosco Edwin, ex ragazzo di strada ora educatore. Edwin è un ragazzo meraviglioso, molto intelligente. Mentre parlo con lui mi sorprendo di come riesca a mettermi a mio agio, nonostante la mia difficoltà di lingua.
Sono contento.
Sono contento perché nell’osservare Edwin mi rendo conto di come sia possibile, veramente, salvarli, questi ragazzi.
Dagli occhi spenti agli occhi vivi.
Il viaggio
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