Mestieri
assistente tecnico, contadinaLivello di scolarizzazione
diploma scuola media superiorePaesi di emigrazione
Sud AfricaData di partenza
1996Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Il lungo racconto dell’aggressione subita da Francesca e dalla compagna Sandy durante un viaggio nella zona del Transkey, Sudafrica orientale.
Ci affrettiamo a montare la tenda sullo spazio che ci avevano indicato dove l’erba è morbida e corta. Sandy, più attenta di me, mi fa notare che non abbiamo visto i tre giovani pescatori tornare indietro. Poiché ho un sentimento di intangibilità di questo posto, è per me troppo estraneo e sono alla ricerca di vissuti extrasensoriali, ignoro completamente gli avvisi di Sandy e le sue fondate preoccupazioni. Ci sistemiamo nel nostro riparo, ho giusto il tempo di un sospiro e di annusare nell’aria una palpitazione interna, un pericolo. E’ buio e si avvertono chiaramente rumori di passi e rami spezzati. La torcia è accesa e cerco in Sandy un’espressione che mi rassicuri, invece trovo la conferma dei miei timori. La cagnolina inizia a guaire colpita da un calcio, il cuore mi pulsa nelle orecchie ed inizio a tremare di paura. Sono in due che squarciano la tenda a destra e sinistra con un coltello e ci minacciano severamente tenendo in mano dei machete: “Vi caviamo gli occhi, vi tagliamo la gola”, “Vi caviamo gli occhi, vi spacchiamo i denti” ci coprono di insulti ma non riesco a coglierne tutte le sottigliezze perché parlano in questo inglese con l’accento in xhosa per me davvero difficoltoso. La loro ferocia mi carica di paura e le loro intimidazioni mi feriscono la mente. Sembrano ci stiano sfidando ad usare la pistola, pensano che abbiamo una pistola. Vogliono i nostri soldi. Colpiscono la tenda e poi si ritirano hanno paura che spariamo. Trascorre il tempo nel terrore, finché si convincono che non siamo armate. Allora da dietro compare un terzo uomo. Nonostante il panico ed il tremore, riusciamo a non perdere la calma. Sandy, anche se è sotto shock quanto me, cerca delle strategie per salvare il salvabile. Prova a gridare, ma il villaggio più vicino è troppo lontano, il sole è già tramontato e sono tutti rientrati ed il fragore del mare copre con facilità tutta la sua voce. A me sembra un tentativo ridicolo, non ho fiducia in nessun aiuto, non collaboro con lei, rimango silenziosa ed attonita. In realtà i tre uomini sono risentiti per questo suo urlare e le intimano di tacere a colpi di machete. Coraggiosamente lei prende la torcia e li illumina insultandoli a sua volta e quelli diventano più violenti e strappano la torcia dalle mani di Sandy. Ora siamo noi sotto la loro luce e questo li rende più spavaldi, sempre attenti se estraiamo delle armi. Ci picchiano con i machete, prendo una botta tremenda sulla mano destra e sul gomito per ripararmi il viso. Dagli squarci riesco ad intravedere che si tratta di ragazzi giovani. Quello a sinistra sembra il più incattivito ed eccitato ed è lui che si produce in un esteso vocabolario di aggressività. Sandy, colpita a sua volta, cambia strategia, piangiucchia sofferente, ammonisce i giovani che il loro padre soffrirà per questo ed uno di loro sembra in qualche modo scuotersi, ritirarsi, insomma questa lamentela innesca qualche effetto, ma la trovo comunque ridicola, mi fa rabbia Sandy, patetica, che vuoi che interessi a questi bruti delinquenti del padre, infatti non desistono. Vogliono i soldi e le scarpe. Mi tranquillizzo un po’ quando, dietro alle loro insistenze, gli consegno il marsupio raccomandandomi di porre attenzione al mio passaporto e vedo che ascoltano le mie richieste; mi chiedono di mostrare come funziona, non hanno dimistichezza con le chiusure lampo, vogliono semplicemente i nostri soldi, le nostre scarpe e qualche altro oggetto che può essere loro utile. Prendono tutti i miei soldi, circa trenta rand, ma mi restituiscono il marsupio, capisco così che non sono veramente malintenzionati.
La cifra è irrisoria, abbiamo la scorta di cibo negli zaini ed i soldi ce li procuriamo attraverso la carta di credito, non è una perdita economica rilevante. Con Sandy ingaggiano una vera lotta. La colpiscono ripetutamente con la parte piatta per avere il denaro e lei non cede. Diventano furiosi e crudeli, iniziano a colpire anche me; capisco che è meglio non contrariarli perché la situazione potrebbe peggiorare e quindi mi arrabbio con Sandy: “Vuoi tirare fuori questi soldi!” e finalmente Sandy dona i suoi quaranta rand. In qualche maniera riesco a comprendere che mi hanno scambiata per un maschio. Forse per i miei capelli corti, forse perché sono alta, forse perché ho le gambe pelose o forse perché è per loro impossibile che due donne si siano avventurate sole in una situazione come questa, senza neanche una pistola. Di me hanno paura e soprattutto il ragazzo che sta a sinistra, mi provoca con delle battute disprezzanti che terminano con “man” cioè uomo pronunciato con tutto lo sfregio possibile. Provo ad affacciarmi oltre il varco della tenda e lui mi colpisce ricacciandomi indietro con un brutale pugno sul capo. La nostra condizione diventa disastrosa quando trovano una delle mie famose scarpe da ginnastica e vogliono l’altra che sembra sparita. Veniamo colpite più e più volte. Per ripararmi prendo un’altra terribile botta alla mano destra. Provo a proporre i sandali femminili miei e di Sandy, glieli metto in mano, ma questi non riscontrano i loro interessi, li rifiutano peggio di una malattia. Tremo e batto i denti, mentre Sandy suda sul viso e sulla fronte. Alzo la voce con risolutezza che non so dove sia la mia scarpa. Borbottano tra loro e finiscono per credermi, forse anche perché avevo già consegnato i soldi con una certa calma e fiducia. L’episodio si risolve definitivamente perché trovano l’altra maledetta scarpa appena fuori della tenda. I due sulla destra sembrano più cauti, meno violenti dell’altro. Vogliono che usciamo dalla tenda, ma noi li ignoriamo. Intuisco che hanno delle perplessità sul mio sesso, non sanno distinguere se sono donna o uomo, sembrano discutere in merito. Nel buio e nella confusione Sandy mi mette tra le mani un coltello abbastanza lungo ed affilato per difendermi. Posso attaccare, posso sventrarne uno, ma sarebbe un macello totale per tutti, soprattutto escludo questa possibilità immaginando il sangue caldo di una persona colarmi tra le mani. Non è proprio la mia storia questa, sarebbe un’esperienza devastante più di qualsiasi altra. Credo nella meraviglia dell’Universo, credo nella bellezza dello spirito umano e lascio il coltello cadere a terra. Ancora con la torcia in mano loro notano le mie manovre e discutono sul fatto che presumibilmente abbiamo un knife, un coltello. Trascinano gli zaini fuori della tenda. Vogliono altro, ma la verità è che non conoscono affatto la maggior parte degli oggetti in nostro possesso e quindi ci chiedono cosa siano per poi decidere se prenderli o rinunciare. Collaboro con loro con una certa tranquillità. Ci stanno derubando di una misera somma, vogliono le nostre scarpe. Banche, assicuratori, case farmaceutiche, industrie, gli ingegneri delle armi, amministratori, politici corrotti sono capaci di più gravi mostruosità e camminano alteri nella loro astuta abbondanza. Desiderare un paio di scarpe mi pare quasi legittimo, trovare due imbecilli come noi che si mettono presuntuosamente in pericolo si meritano quasi una lezione.
Ho una nota di terrore quando li scorgo con in mano la bottiglia dello spirito che usiamo per il fornello, mi sovviene una visione della tenda bruciata e noi che fuggiamo urlanti da essa. Rimango il più possibile vaga e loro, fortunatamente, passano oltre. Non sono interessati al cibo. Trovano le creme idratanti e quelle per la protezione solare. Non so veramente spiegare cosa siano, dopo averle toccate, soppesate, osservate, passano oltre. Si interessano alla mia giacca da pioggia. Sandy sembra stordita, per una volta. Nel vagare della luce della torcia distinguo un taglio sul suo viso che le attraversa l’occhio. E’ confusa, tiene in mano una delle sue preziose scarpe che era riuscita ad occultare fino a quel momento. Loro la vedono e ci si avventano e pretendono anche l’altra, questa volta lei non pone resistenza ed attiva un altro tentativo in disperata dolcezza: “come on, come on, sit down and smoke a cigarette with us”, “su su sedetevi e fumate una sigaretta con noi”. Ci puntano addosso la torcia corrucciati, sono un po’ perplessi di fronte a questo nuovo cambiamento ed è il ragazzo di sinistra, quello più terribile, che le chiede: “What’s your name sister?”, “come ti chiami sorella?” e lei risponde con gentilezza “Sandy”, e poi si rivolge a me “and what’s your name sister?” “E qual è il tuo nome sorella?” e rispondo con altrettanta franchezza scandendo bene tutto il mio nome: “Francesca”, “and so you are a girl!”. Queste frasi in inglese mi pesano come macigni, echeggiano nella mia psiche come boati, non avrei bisogno di tradurle in italiano: “e così tu sei una donna!” Sono ad un punto cruciale della faccenda e devo inventarmi qualcosa per salvarmi, l’ambiguità del mio maschile/femminile riesce a trattenere il dilagare della loro prepotenza, incute un certo timore. Ho già notato tra le varie minacce alcune parole che lasciano intuire il desiderio di violentare Sandy, la mia androginia è utile e la devo preservare. Cerco una scappatoia pronunciando con il mio peggior inglese: “Sorry, I don’t speak english very well, I’m from another country”, “Scusate, non parlo bene inglese, vengo da un altro paese” “Where are you from?” “Da dove vieni?” “Italy” “Pytaly?” e compie un balzo indietro come spaventato. Sicuramente non conosce l’Italia, inizia a parlottare con gli altri. Quello al centro, con la maglietta azzurra, prende in mano la torcia, tutti e tre devono stabilire se sono maschio o femmina, me la puntano in faccia avvicinandosi il più possibile e qui tento la sorte ergendomi diritta per quanto consentito dalla piccola tenda e mostrando un’espressione massimamente indefinita tra uomo e donna. C’è un momento di sospensione, il mio volto è duro e ben visibile, la luce mi disturba gli occhi, tremo, tremo in ginocchio ma sono ferma.
Loro si ritirano ancora per un attimo silenziosi per riprendere a discutere tra loro nella loro lingua, ma senza una soluzione. Questa mia indecifrabilità li sconcerta ed un po’ li spaventa anche. In qualche angolo del mio essere so che hanno ragione ad avere paura di me. Ora se ne potrebbero andare, è trascorso molto tempo, sono piena di lividi e Sandy è ridotta anche peggio, loro sembrano essersi calmati, hanno avuto tutto ciò che volevano: soldi, scarpe e altri oggetti per loro utili, potrebbero accontentarsi, potrebbero trovare la fine. Il terzo a sinistra, con la maglietta gialla, è di nuovo alla carica. Rispolvera la sua sequenza di insulti e ricomincia tutto dall’inizio. Ci vuole cavare gli occhi e sgozzare, urla, si eccita, vuole violentare Sandy ed anche gli altri si lasciano trascinare da lui, gridano e vogliono tirare giù la tenda. In un altro angolo del mio essere so che la tenda è protetta e resisterà, l’importante è restarne al riparo, forse per una speciale protezione spirituale o, più semplicemente, perché non sanno come funziona. Iniziano a colpire con forza cercando di abbatterla, rompono uno dei tiranti, aprono un altro squarcio sul retro ma la tenda resiste. Non finisce mai questo supplizio, non finisce mai. Ho accettato, legittimato la loro pretesa su soldi e scarpe ma la violenza sessuale no. Assolutamente no. Sono tutti e tre al massimo dell’eccitazione, urlano, inveiscono, ci insultano con oscenità. La maggior parte delle frasi vuole offendere la mia mascolinità, il mio potere sessuale e certo questo non ottiene il suo effetto, non ho alcun risentimento, certe frasi non mi toccano perché sono una donna. Essere insultata perché ho un pene piccolo non può scalfirmi granché, ma sono preoccupata per Sandy, vogliono trascinarla fuori della tenda ed allora cerco e trovo il coltello per terra vicino al mio polpaccio, glielo passo, ma nemmeno lei vuole responsabilità in questo senso e quindi me lo restituisce subito. Notano immediatamente il nostro traffico incauto e gridano “knife, knife” “coltello, coltello”. Di nuovo sono occupata ad affrontare la luce della torcia. E’ puntata contro di me peggio di un’arma da fuoco. Lascio cadere il coltello sperando scompaia tra le pieghe del sacco a pelo. Se si intravedrà questo arnese, la loro eccitazione salirà e saremo perdute. Mi gridano addosso irruenti; mostro le mie mani nude, mostro le mie mani aperte, respirando. Non sono persuasi, non si fidano ad avvicinarsi troppo a me e forse questo coltello nel suo apparire e sparire gioca un ruolo di contenimento, ma se diventasse completamente visibile sarebbe motivo di maggiore violenza. Tentano di prendere Sandy per spostarla fuori, ma lei si scuote, si libera. Afferrano me, ma non ho nessuna intenzione di assecondarli, rinunciano. Vogliono di nuovo prendere Sandy per trascinarla fuori, vogliono fare una festa con lei. Sandy, dopo l’ennesima sollecitazione, è stordita e sembra stia capitolando, si sta preparando per muoversi, sembra disposta ad uscire come loro vogliono. Riemergono le parole a lungo sentite in questi giorni “stai nella tenda, la tenda è protetta”.
Con decisione l’agguanto mentre si sta alzando e la tiro indietro, seduta di nuovo accanto a me. Che altro posso fare, che cosa posso fare? Lottare sarebbe inutile ed aumenterebbe lo stato di esaltazione di questi tipi, forse l’unica vera possibilità che mi rimane è credere in altre forze, in altre protezioni. Assumo la posizione di meditazione e con tutta serenità e rilassatezza inizio a respirare profondamente. Come primo immediato effetto ottengo un preciso colpo al centro del capo con la parte tagliente del machete sferrato dal ragazzo a sinistra con la maglia gialla, il più fanatico ed esagitato. Sento il sangue uscire dalla ferita ed il mio pensiero commenta ironico: “proprio un bel risultato questa meditazione!” ma non desisto, nemmeno sul piano razionale ho altra possibilità. Mi ritempro, rinnovo la mia fiducia e ricomincio la mia meditazione aspramente interrotta. Sono davvero risoluta e ferma. Voglio che questo finisca, voglio che tutto questo finisca. La nostra torcia in mano loro si spegne, forse è terminata la batteria, ma questo mi rinfranca e continuo imperterrita nella mia immobilità. I ragazzi sono almeno disorientati, qualcosa inizia a placarsi e finalmente i due a destra dialogano tra loro sembra per distribuirsi il bottino. La mia volontà vuole pace e pace. L’altro ragazzo non la vuole smettere, agita il machete, colpisce Sandy, colpisce la tenda, la vuole spaccare ed il mio pensiero mi porta a casa, dai miei amici, dai miei nonni e nonne, dai miei genitori in un disperato richiamo di aiuto e protezione. Finalmente cede anche questo forsennato. Non avere più la torcia funzionante ha diminuito la loro spavalderia. Conversa con gli altri, conversa ancora a lungo, troppo a lungo, ma l’atmosfera è cambiata, mi sento rinascere, mi sento bene. Certamente la mia immobilità deve averli perlomeno sconcertati. Dividono tra loro le cose e, finalmente, fuggono via attraverso il fiume. Il fragore dei passi di corsa nell’acqua li accompagna lontani. Tutti i dettagli di questo episodio sono vivi e veri. Non riesco a dimenticare nessuna delle frasi pronunciate, non riesco a dimenticare nulla. Ogni ricordo è serio nella mia memoria come graffi profondi. Sono in totale stato di trauma e mi sento come divisa in due: una parte di me è terrorizzata, balbetto, tremo e mi muovo come in uno stato di trance; un’altra parte è come in uno stato di estasi, mi sento libera da tutti quegli oggetti inutili, mi sento accolta dalla natura, dal cielo, dalla terra, mi sento grata alla vita come mai mi era accaduto. Sandy cerca di rimettere insieme le nostre cose, la cagnolina si sbafa le nostre ultime salsicce di struzzo ed io cammino ad occhi sbarrati assorta in un amore infinito per la vita ma assolutamente incapace di compiere qualsiasi gesto che abbia un senso sul piano materiale. Ci allontaniamo da quel luogo funesto con il terrore che possano tornare ancora.
Il viaggio
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