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Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Gabriele Camelo è ai saluti. L’anno trascorso in Bolivia con il Vis a lavorare per un progetto di reinserimento sociale di ragazzi di strada, sta per finire. Gabriele rientra in Italia.
Mentre a pranzo abbiamo festeggiato nella Granja, la sera decido d’invitar tutti a mangiare fuori. L’ultima sera boliviana è una sera pollastra.
Una sera fatta di polli: polli sono quelli che ci mangiamo, in un fast food cinese che vende polli fritti e patatine fritte a poco prezzo (un genere di locale sconosciuto in Europa ma comune in Bolivia) – io offro a tutti, ragazzi e personale della Granja (Padre Henke, guarda caso, non è venuto), è la mia festicciola d’addio – e pollo sarò io, preda prelibata per i poveri poliziotti boliviani. A fine cena i ragazzi se ne vanno col pulmino, io sono con la moto e mi trattengo con due/tre donne che lavorano nella fattoria. Un poliziotto, mentre passa di là si avvicina con fare arrogante, mi chiede che ci faccio lì, a che titolo sono presente, lì. Una domanda assurda: a che titolo sto di fronte ad una polleria, per strada?
Mi chiede il passaporto, passaporto che non ho perché ce l’ho in Granja, mi fa una domanda dietro l’altra a cui do una risposta dietro l’altra ma la sua arroganza stimola il nervosismo delle donne che stanno con me, che ben sanno l’atteggiamento spilla-soldi dei poliziotti. Io son tranquillo, poiché ben so che non serve a nulla mettersi contro. Eppure le donne sono inviperite, gli chiedono che senso abbia stare lì a fare domande a me, da dove vengo che cosa faccio chi sono; piuttosto che andare dietro ai criminali veri. E l’uomo, a sua volta, s’incazza di più; alla fine mi chiede la mia carta d’identità italiana (scaduta!), gliela do in mano, lui se la mette in tasca e mi dice di tornare alla stazione di polizia più tardi con il passaporto. Sono le undici di sera: l’indomani dovrò stare alle cinque all’aeroporto. Cazzo.
Sono due le cose: o la prendo a ridere, perché questa storia è proprio da film, e la potrò raccontare un giorno sorridendo, o mi metto a piangere. Preferisco prenderla a ridere, pensando all’assurdità di un anno in Bolivia mai fermato da nessun poliziotto, un anno filato via liscio, ed ora l’ultima notte mi capita l’assurdo impensabile. Il personale della Granja si mobilita, mami Meche fa le fotocopie del giornale che parla della mia iniziativa-spettacolo, l’assistente sociale prepara un documento ufficiale che attesta il mio ruolo di volontario con annessa firma falsa di Padre Henke (non sia mai disturbarlo, io mi offro come falsificatore di firma), Edwin mi dà il suo supporto morale, ed assieme formiamo la squadra anti-polizia. Ci rechiamo alla questura, dove è presente il tipo arrogante, ed assieme a lui è presente il capo, silenzioso, adulto, rugoso, grosso. Sembra una commedia, il tipo agitato-aggressivo e il tipo silenzioso-falsosaggio. Dopo che l’arrogante ha detto la sua, il capo, lentamente, prende la parola. Dopo un lungo preambolo, ci fanno capire che vogliono i soldi. Mami Meche, sbruffona, risponde: “e voi ci date una ricevuta della multa, vero?”; “per la ricevuta dovreste versare i soldi in banca, e domani il signore italianino (letteralmente, mi chiama così, don italianito) parte: non so, vedete voi”. Siamo alle strette. “Va bene” – dice mami Meche – “quanto volete?”. E’ un dialogo surreale. Il tipo risponde che la signora è una persona adulta e matura, ed è certo che saprà regolarsi secondo la sua coerenza di donna anziana. Mami Meche insiste, vuole sapere la cifra, il capo chiede settanta boliviani, io ne ho trenta con me, gli altri fanno una colletta e raccolgono i soldi mancanti, Mami Meche – soldi in mano – fa finta di contare, con zelo, di fronte al capo, conta “uno due tre quattro cinque sei sette” e al sette leva la banconota da dieci. Una grandissima presa per il culo. Consegna le banconote in mano al capo, ed io rabbrividisco: e mo’ se questo s’incazza? Il tipo conta le banconote, e con la sua flemma calma dice “ad ogni modo, vanno bene sessanta”. Ci stringiamo le mani, corruzione fatta, ce ne andiamo.
Io passerò una notte insonne a preparare pacchi e valigie per l’indomani: ce la farò mai a portar tutto?
Le valigie, in tutto, sono cinque, compreso i trampoli. Ed il limite massimo è di due valigie. Come farò? Non lo so, ma sono fiducioso nella mia paraculaggine unita alla fortunaculaggine che ho. Mi accompagnano tutti i ragazzi ed il personale (manca Padre Henke, ovviamente, e Edwin, non so come mai non sia venuto ma ho il pensiero che avesse paura di vedermi partire), e l’aeroporto è vivo, con tutto il trambusto fanciullesco che mi sta dietro. L’impiegata responsabile della compagnia peruviana si rifiuta d’imbarcarmi tutti quei bagagli, dovrei pagare una sovrattassa corrispondente a: euro quattrocento. Io faccio la faccia pietosa, gli spiego che sono un clown, poi con i ragazzi mi riunisco ed assieme, al mio tre, urliamo per tutto l’aeroporto “per favore, Claudiaaaaaa!”, il nome della tipa. “Va bene”, dice, “basta che mi fai uno spettacolo”. Ci risiamo. La monetina sparisce, Claudia è contenta e da indicazione su come distribuire il peso dei bagagli, ci chiede di aprirli, e spostare cose in altre valigie “ma sbrigatevi, sbrigatevi, sbrigatevi!”. E’ un trambusto totale. L’aeroporto è pieno di mutande e calzini che volano da una parte all’altra, valigie che si aprono, bagagli che si chiudono, bambini che corrono, io che faccio avanti indietro fra le valigie e l’ufficio pagamento tasse, è tutto estremamente surreale. Ma, alla fine, ce la faccio.
Alla dogana ci salutiamo: “Mami, mi saluti Padre Henke e le dica che mi dispiace che non sia venuto”, Maria – l’educatrice – ha le lacrime agli occhi, io mi volto per un’ultima volta, i ragazzi son tutti lì che mi guardano e sorridendo gli urlo “Vi porterò con me! Pregherò per voi!”, e poi m’immergo nella trafila dogana-imbarco-aereo. Sono sul sedile dell’aereo, gli occhi si chiudono, crollo dopo due giorni e due notti che non dormo. Quando riapro gli occhi, realizzo dove sto, ho un sedile davanti, un finestrino accanto, sono in cielo, lontano, lontano dalle persone con cui ho condiviso un anno della mia vita, lontano dai ragazzi, lontano. E’ tutto finito. È tutto finito davvero.
Nascondo le lacrime asciugandole presto sulla pelle delle mie mani.
Avevo tante paure, dal momento del mio ritorno in Italia. Avevo paura dell’Italia, del suo mondo ricco e pieno di stimoli, avevo paura di Roma, avevo paura di perdermi nelle superficialità che mai mi hanno regalato gioia, ma solo distrazione, avevo paura di ritrovarmi nuovamente immaturo. Ed invece, ho scoperto che le mie preoccupazioni erano inutili: perché, arrivando in Italia, dopo i primi tre giorni di spaesamento e depressione, mi sono accorto di essere incredibilmente cresciuto, cresciuto dentro. Sento un’identità. Non sento qualcosa di disperso, mi sento dentro, e mi sento forte. Sento un palo dritto dentro, come colonna vertebrale, che mi tiene ben eretto, un palo di cemento che non s’abbatte, e cammino dritto, nella mia vita.
Non so come sia capitato, non so davvero.
So che è già passato più di un mese dal mio ritorno, eppure il mio nome ora è pieno di sostanza. In ogni mia lettera ringrazierò il dolore che ho passato, lo stringere i denti che ho avuto, il cristianesimo che mi ha aiutato ed i ragazzi di strada che – non so come e non so perché – mi hanno educato.
Io, che ero partito per educare loro, sono stato educato.
Ora ho una costante, presente, serenità addosso. Non è divertimento, non è felicità.
È una lieve, leggera, gioia.
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