Mestieri
impiegatoLivello di scolarizzazione
frequenza universitariaPaesi di emigrazione
LaosData di partenza
1970Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Temi
amoreTemi
amoreL’incontro tra Mauro e Banchit, la donna laotiana rimasta vedova di cui il missionario laico italiano si innamora, che diventerà sua moglie e madre di tre suoi figli.
Era una maestra, la prima del nutrito gruppo che dal 1964, pur rimanendo buddista, s’era resa disponibile a lavorare per la missione cattolica. Venni a sapere che a diciassette anni s’era presentata a padre Marcello Zago, allora direttore della scuola della missione, desiderosa solo di lavorare. Il direttore della scuola, dopo un breve periodo di prova, l’aveva assunta come maestra. Dal 1964 fino al 1975 continuò ad offrire la sua preziosa collaborazione alla missione. Quando io giunsi al Laos, lei insegnava il francese in sixième, e lo faceva da dieci anni. Quattro classi di una quarantina d’alunni ciascuna, aveva quindi conosciuto tutti gli alunni che erano transitati dalla scuola della missione. Non c’era famiglia di Luang Prabang che non la conoscesse. Banchit era la prima di sedici figli, di una famiglia, i Kirivong, che abitava in Ban Kily, proprio nel cuore della città. Suo padre, intelligente, originale, dinamico, un po’ istrione dovette esercitare ogni mestiere per sopportare il peso di una così gran prole, tanto che approdò, una volta superati i cinquant’anni, ad essere segretario di una scuola elementare in Luang Prabang, quella sulla via delle Pagode. La mamma era persona calma, abulica, stanca, quasi che il parto di sedici creature l’avesse svuotata d’ogni energia. Banchit, come si è soliti fare nel Laos, s’era sposata giovane, la sua era una situazione invidiabile. Il marito, figlio del medico provinciale, aveva alcuni fratelli laureati e di famiglia possedeva case in città e giardini fuori. Lui era uomo sensibile e preciso, pilota d’elicotteri al servizio del governo laotiano, un uomo che prometteva una brillante carriera militare avendo perfezionato i suoi studi sia in Francia che in America, dove aveva ottenuto la qualifica d’istruttore pilota. Seguendo la tradizione Lao, appena celebrato il matrimonio, lui s’era trasferito in casa dei Kirivong, ma raramente vi dimorava perché era continuamente impegnato in missioni di guerra. Banchit aveva avuto da lui un figlio di nome Savatthasith, che tutti chiamavano Be, piccolo, esile, coccolato dalla numerosa famiglia soprattutto dalla bisnonna, mamma del papà di Banchit, che viveva in casa e che s’era prodigata, senza risparmio d’energie, per crescere i suoi numerosi nipoti. La casa in cui abitava l’intera famiglia, in mattoni, una sola stanza di trentacinque metri quadrati, era stata costruita dalla nonna con i soldi raggranellati, giorno dopo giorno, vendendo dolci al mercato, aiutata dalla prima nipote, la piccola Banchit. Una sorella più giovane di qualche anno, Bansum, una volta cresciuta, era diventata hostess nella Royal Air Lao e traeva da questo lavoro un consistente aiuto per la famiglia. Era quella di Banchit una famiglia non ricchissima, che non poteva permettersi di scialacquare, ma che viveva dignitosamente anche in un momento reso difficile dalla guerra. Proprio nel 1971, Banchit fu colpita da un lutto improvviso, perse l’amato marito, disintegrato in un attentato mentre si trovava in Tailandia. Partecipai al funerale che fu celebrato con tutti gli onori del caso.
Tutte le persone che contavano in città, senza eccezione alcuna, erano presenti alla cerimonia di cremazione. Quel giorno, nella gran calca, notai qualcosa di particolare: Banchit, invece di ricevere i convenuti che si presentavano a porgere le rituali condoglianze, invece di accoglierli con quel triste sorriso che gli orientali sapevano ben mostrare per nascondere le vere tensioni del cuore, se ne stava rannicchiata in un angolo, stringeva il suo piccolo al petto e, distrutta dal dolore, non riusciva a por fine alle lacrime. Non era preoccupata di velare le sue emozioni, di manifestare in modo così marcato il suo stato d’animo, non si curava di “perdere la faccia”, lei pareva non vedere nessuno e dava libero sfogo al suo pianto. “Quanto lo amava”, pensai dopo aver osservato a lungo quella scena. Mi parve ancor più estraneo un tale atteggiamento se paragonato a quello che avevo già osservato in occasione di un altro funerale. Per la morte del giovane figlio di una maestra che svolgeva mansioni di segretaria nella nostra scuola, fummo accolti in casa come se fosse una festa, una festa per la morte di un figlio, solo un velo di tristezza sfiorava lo sguardo della madre. Questo modo sì, rappresentava il vero volto dell’oriente, impassibile, impenetrabile, misterioso. Poteva dunque sembrare inspiegabile, l’incontrollato atteggiamento di Banchit, ma una ragione doveva esserci. Passò quasi un anno e, quando decisi di pensare ad una donna, mi tornò in mente la scena del funerale. Quella donna che aveva tanto sofferto per la perdita del marito, che faceva da sorella maggiore a tutti i suoi fratelli, che portava il peso di un figlio, e che serenamente continuava il suo servizio nella scuola, aveva certamente un cuore capace d’amare. Non era neanche troppo giovane. Aveva solo cinque anni meno dei miei 31 e meritava una particolare attenzione. Cominciai ad osservarla con più interesse e decisi di parlarle ancor prima che terminasse l’anno scolastico. lo non ero uomo di molte parole, né di troppe moine e andai dritto al fine. Le dissi che volevo esserle amico, conoscerla meglio e che avevo intenzioni serie.
Lei, al momento si stupì per una proposta certamente inattesa, ma ebbe l’accortezza di prendere tempo. Avrebbe dovuto pensarci. M’avrebbe dato una risposta più in là. lo non chiedevo altro e tanto mi bastò. Quasi ogni sera cominciai, con il permesso dei suoi genitori, a frequentare casa sua. Ci sedevamo uno accanto all’altra sulle due poltrone del salotto, alla presenza di tutta la famiglia e si parlava di tutto e di nulla. Di tanto in tanto discorrendo m’era concesso di tenere fra le mie, la sua mano. lo aspettavo una sua risposta, ma la frequentazione assidua di lei mi fece capire che stavo veramente incontrando un cuore speciale. Del resto il nome Banchit significa “cuore aperto”. Parlando col lei capii quanto aveva amato il primo marito e quanto amava suo figlio. Mi resi conto che se io avessi scelto Banchit e se la sua risposta fosse stata positiva, avrei dovuto accettare di convivere con il ricordo del primo amore ancor vivo nel suo cuore e con suo figlio, la luce dei suoi occhi. Questi miei approcci innocenti, che pensavo del tutto leciti, fecero ulteriormente scoppiare una sottile polemica fra i missionari. Com’era possibile dare ospitalità, in una comunità religiosa, ad un laico che pensava di sposarsi? lo ero il primo laico italiano che s’era messo al servizio della missione. Intanto passavano le settimane e Banchit, non aveva ancora trovato nel suo cuore una risposta per me. lo continuavo a vivere da single, a frequentare la sua casa nei ritagli di tempo strappato alla scuola e allo studio. Ai primi di giugno del 1973, una sera normale, durante una delle solite visite a casa sua, senza che nemmeno me l’aspettassi, Banchit si decise a regalarmi il suo sì.
Il viaggio
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