Mestieri
insegnanteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Yemen, Libia, Eritrea, SomaliaData di partenza
1908Periodo storico
Periodo post-unitario (1876-1914)L’imminenza della guerra italo-turca, nel 1911, per il controllo della Cirenaica e della Tripolitania, coglie Eugenia e il marito Gherardo Pantano, ufficiale dei bersaglieri, tra l’insediamento coloniale di Aden e la Somalia. Le circostanze dimostrano l’intraprendenza di Eugenia nell’ambito della vita coniugale.
Il colonnello al quale domandavo notizie sulle voci che correvano insistenti, di guerra, mi confermò che l’Italia stava per entrare in guerra con la Turchia per il possesso della Libia. Questa notizia mi fece subito pensare che il richiamo di Gherardo in Somalia in quel momento non dovesse più essere così caro a lui che avrebbe forse desiderato maggiormente prender parte alla guerra per la conquista della Libia. “E tu che cosa pensavi?” – si potrebbe chiedermi. Ecco, io comprendevo pienamente l’animo di mio marito e ne dividevo gli entusiasmi: ma pensavo,- forse non conoscendo bene la situazione – che anche le nuove occupazioni in Somalia, allargavano i confini della Patria e che egli poteva perciò essere contento della parte che gli era stata assegnata. Ma intanto le faccende andavano complicandosi: in Aden si parlava ormai apertamente della guerra e si diceva anche che, essendo l’Inghilterra neutrale, non avrebbe certo permesso che l’Italia continuasse a reclutare ascari nel suo protettorato di Arabia. Io tendevo le orecchie e pensavo che bisognasse avvertire mio marito. Seppi – e tutta Aden ne parlava – che una nave da guerra inglese era partita per Macalla e si diceva dall’ “uomo della strada” che avrebbe fatto prigioniero l’ufficiale italiano che era colà per la recluta di ascari arabi. Ero veramente angosciata dell’impossibilità per me di avvertire mio marito.
Il console italiano – che non era più l’amico Piacentini – venne la sera di quel giorno in cui era partita per Macalla la nave da guerra inglese, ad avvertirmi che una barcaccia – la quale non poteva assurgere al nome di vapore – appartenente ad una società indiana, partiva per Macalla la mattina di poi. Il suo avviso era ch’io scrivessi a mio marito spiegandogli la situazione; ma poiché egli mi diceva che l’imbarcazione indiana sarebbe arrivata a Macalla probabilmente dopo che la nave inglese era già ripartita di là, mi pareva inutile scrivere. Decisi allora di imbarcarmi io stessa sul vapore indiano: se mio marito non era partito con la nave inglese – quod erat in votis – egli sarebbe stato contento di vedermi arrivare facilitandogli ciò la faccenda: poiché il “Covaje” faceva poi rotta per Mogadiscio si sarebbe fatto assieme al viaggio senza ritornare in Aden. Ma se egli, mentre io viaggiavo per Macalla fosse ritornato in Aden? Non volevo pensarci e partii, con grande meraviglia del Console – un pover’uomo – il quale diceva essere nientemeno che eroica la mia decisione. Se avesse saputo ch’io avendo il ribrezzo degli scarafaggi, ne avrei avuto a migliaia nella mia cabina e perfino in cuccetta, forse avrebbe avuto ragione a parlare di eroina … o qualche cosa di approssimativo! Il viaggio fu penoso: non dormivo per gli scarafaggi e non mangiavo perché i cibi che mi si offrivano erano immangiabili: ma i tre giorni passarono e la mattina del quarto, arrivando a Macalla, seppi che Gherardo era ancora là. Gli ufficiali inglesi – mi raccontava egli – avevano gentilmente insistito perché egli prendesse posto sulla nave: ma egli aveva troppo bene compresa la situazione e l’impressione che tale suo ritorno in Aden avrebbe fatta. Si disimpegnò pertanto, affermando che, in rispetto alla neutralità inglese, egli non avrebbe reclutato altri ascari; ma che però egli era in diritto di portare con sé in Somalia quelli ch’egli aveva reclutato prima della dichiarazione di guerra.
E questo diritto non gli fu contestato: ma gli fecero osservare essere difficile per lui trovare altra occasione per partire di là. Egli aveva tenuto duro, non era partito ed aveva quindi accolto me ed il brutto scarafaggio di mare su cui mi ero imbarcata, come una salvazione. Fui felice anch’io di aver indovinato, aiutandolo così nella difficile situazione in cui si era trovato: imbarcati quindi gli ascari, partimmo alla volta di Mogadiscio. Il capitano del vapore, parve aver compresa tutta la faccenda: egli non parlava che inglese – che noi masticavamo assai male – quindi assai poco si poteva comunicare, ma fu così gentile e premuroso per noi in quegli otto o dieci giorni che durò il viaggio, da lasciarci un buon ricordo. Ci fece perfino la gentilezza di farci preparare la pasta asciutta che il cuoco indiano aveva lasciato bollire almeno un paio d’ore e ne era venuta fuori una poltiglia immangiabile! Fummo tuttavia grati del pensiero e dell’intenzione. Che strani uomini quegli indiani! Sembrano indifferenti a tutto, estranei alla nostra vita e poi ci si accorge che ci comprendono e che simpatizzano, come se fossero penetrati nei nostri pensieri. Finito il loro lavoro, gli uomini dell’equipaggio prendevano in mano un indumento del loro vestiario e vi ricamavano su degli strani fiori senza aver prima fatto né un disegno né un abbozzo. Io guardavo, ammiravo, mi interessavo, e loro mi fissavano con quei loro occhi profondi che sembrano vedere fino in fondo all’anima!
Un giorno, nella stiva – ov’erano gli arabi arruolati – avvenne una rissa: gli uomini si accapigliavano, si battevano, correva del sangue, sebbene non avessero altra arma che qualche bastone. Gherardo scese subito laggiù in mezzo a loro, ed io – lo confesso – ne tremai: anche il comandante scese con lui e coraggiosamente si misero ambidue a strappare i bastoni di mano ai rissanti ed a gettarli in mare. In brevissimo tempo la tempesta si calmò e, dopo ch’egli ebbe rivolto poche parole in arabo a quegli uomini – vidi mio marito risalire, calmo e sicuro ormai. Con lui risalì anche il capitano che gli si avvicinò ed i due si strinsero la mano, soddisfatti l’uno dell’altro. Io ne ero commossa e Gherardo mi esprimeva la sua ammirazione per la condotta di quell’uomo. Questi si avviò verso la saletta da pranzo ed ordinò da bere, facendo invito a mio marito di sedere con lui. Gherardo, astemio, rifiutava: ma l’altro, che non comprendeva, né imaginava, probabilmente, un soldato astemio, insisteva tanto che Gherardo dovette arrendersi ed inghiottire quel liquore che gli bruciava palato e gola. Io ridevo, ed egli si vendicò costringendomi a dividere con lui l’amaro calice. E poiché anch’io sono astemia, la cosa finì in una specie di ebbrezza che ci prese tutti e due!
Giungemmo finalmente a Mogadiscio ed era ora, perché io ero così bisognosa di riposo… senza scarafaggi – che non avrei potuto resistere a lungo.
Il viaggio
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