Mestieri
insegnanteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Yemen, Libia, Eritrea, SomaliaData di partenza
1908Periodo storico
Periodo post-unitario (1876-1914)Dopo aver vissuto insieme la drammatica esperienza della Prima guerra mondiale, fin oltre la disfatta di Caporetto, Eugenia e il marito Gherardo tornano nel settembre del 1918 a Tripoli. Il dispiacere per non aver assistito al riscatto di Vittorio Veneto è grande.
Ma, più tardi, un’inaspettata e non desiderata notizia venne a rattristarci. Mentre io ricominciavo a sperare di poter ritornare al mio compito d’infermiera in zona di guerra, Gherardo veniva destinato al Comando delle Truppe in Tripolitania, o, meglio, in Libia: e per quanto facesse onde poter evitare tale dolorosa separazione dalle sue truppe che gli avevano dato tante soddisfazioni, egli dovette ubbidire e partire al più presto. Io potevo, è vero, accompagnarlo; ma comprendevo troppo quanto dolorosa fosse per lui la nuova destinazione per poterne essere contenta. C’imbarcammo a Siracusa e giungemmo a Tripoli il 17 settembre del 1918. La notizia dell’arrivo di un generale, Comandante delle Truppe, aveva sollevate molte e diverse passioni nell’ambiente poco sano della Colonia. Qualcuno non vedeva volentieri le cose avviarsi anche laggiù verso una stabilizzazione militare che poteva far presagire la guerra. C’erano tanti imboscati a Tripoli e c’era, in massima, così poca comprensione delle necessità inerenti alle Colonie che il nuovo Comandante appariva come uno spauracchio a molti. Altri invece s’erano creati delle posizioni che le necessità della guerra avevano lasciato consolidarsi e vedevano con paura la probabilità di un cambiamento che avrebbe tolto loro molte agevolezze di vita e di carriera.
L’arrivo de nuovo Comandante delle Truppe avveniva qualche giorno prima di una ricorrenza festiva: il 20 settembre; era già stato prestabilito per quella data un pranzo che il Governatore offriva ai suoi collaboratori.
Il Governatore era allora il gen.le Garioni: egli aveva chiamato al posto di Comando delle truppe mio marito e pare avesse tanto insistito sul suo nome da rendere vana ogni protesta del mio Gherardo per non essere allontanato dalle sue truppe e dalla linea di combattimento.
Ora il Comando delle Truppe era carica che seguiva immediatamente, per importanza, quella del Governatore, così che colui il quale aveva fino allora tenuto quel secondo posto – che dava diritto alla reggenza della Colonia in caso di assenza del Governatore – se lo vedeva molto mal volentieri sfuggir di mano. E forse ancora più del funzionario, ne soffriva la moglie di lui e l’intera famiglia che, senza volerlo e senza neppure imaginarlo, io con la mia presenza detronizzavo. Meschinissime passioni di cui mi vergogno quasi di parlare; ma che costituirono, fin dal principio della nostra vita in quella Colonia, una situazione molto poco simpatica anzi antipatica oltre ogni dire.
Se il Governatore, al pranzo del 20 settembre avesse messo alla sua destra il Comandante delle Truppe, il Segretario Generale della Colonia veniva automaticamente detronizzato, quindi si attendeva con ansia tale conferma e c’era chi la desiderava e l’auspicava, per ragioni più o meno belle e nobili; e c’era chi l’attendeva con rabbia repressa e con propositi di vendetta.
Tutto ciò ci fu noto molto più tardi: né da Gherardo, né da me tante ambizioni, tante basse passioni potevano esser comprese od indovinate; noi eravamo proprio ingenuamente fuori del dramma che si stava svolgendo e di cui eravamo, senza saperlo, i protagonisti. Quando la sera del 20 settembre Gherardo tornò in albergo dove io lo attendevo, e mi raccontò qualche cosa di ciò ch’egli aveva capito essere nell’atmosfera di quella riunione festiva cui aveva assistito, ci sentimmo avviliti e dolenti di essere entrati in un ambiente di così piccole e basse passioni in contrasto fortissimo con i nostri animi che avevano vissuto fino a quell’ora in un’atmosfera di grandezza, di eroismo e di sacrificio in cui i cuori s’innalzano e si purificano di ogni scoria.
Così cominciò quel periodo che non posso ricordare senza tristezza ed umiliazione quasi direi, e che portò a Gherardo tante preoccupazioni, tanti pensieri. Dal trovarsi lontano, mentre, a sua insaputa – e nessuno aveva pensato ad avvertirlo – si avvicinava il pericolo di un’aggressione da parte del nemico; e, tornando, trovare tutte le disposizioni prese talmente sbagliate che fu un vero miracolo non sia successa una catastrofe; al dover lottare contro pregiudizi e, peggio, contro il malanimo di chi avrebbe avuto il dovere di tenerlo informato delle mene politiche che si svolgevano in segreto, sì che credendo di andare incontro ad ambasciatori di pace, egli si trovava dinanzi a nemici armati e dichiarati, tutto fu tentato per far sì che uno scacco lo obbligasse a lasciare il posto e nulla fu lasciato intentato per diffamare me, dipinta come un’intrigante, una mestatrice ed attorniata da una corte di pettegole e maldicenti a servizio di chi dirigeva l’orchestra. Mi si accusò perfino di voler fondare una loggia massonica femminile: e ci sarebbe da ridere ed io infatti ne risi di cuore allora ricordando il modo di far inquietare la mamma che papà mio otteneva assicurando che le donne non potevano entrare a far parte della massoneria perché non sapevano mantenere il segreto. A questa affermazione, invariabilmente, la mamma reagiva – e lei ne aveva diritto, visto che durante il processo e la prigionia di papà, sotto l’Austria, ella aveva saputo mantenere molti segreti e tenere in iscacco la polizia austriaca – e papà si divertiva un mondo e noi con lui delle sue reazioni: così che anche la mamma finiva per sorridere allo scherzo tanto spesso ripetuto e capace di farla andare sulle furie ogni volta. Ma a ben pensarci poi, compresi che quell’assurda accusa non tendeva a ferir me, ma mio marito che non apparteneva alla massoneria; ma che volevano far passare, presso il Governatore, come il candidato della Massoneria alla carica di Governatore!
Che brutto periodo della nostra vita fu quello! E come ci sentivamo avviliti di doverlo vivere: lontani l’uno dall’altra, perché Gherardo era alla fronte a Zanzur, sotto la tenda; e la fronte non era calma: vi si svolsero numerosi combattimenti, tutti favorevoli alle nostre armi; ed io ero a Tripoli, all’albergo, perché – fra le altre cose – non si trovò mai un alloggio per il Comandante delle Truppe! La politica era condotta in tal modo che non vi si poteva vedere una via d’uscita; e mio marito che per la lunga esperienza di cose coloniali vedeva portata in lungo una vicenda che avrebbe dovuto essere risolta diversamente, era in uno stato d’animo così penoso che la sua salute stessa ne sofferse. Per fortuna – e dico per fortuna relativamente alla situazione – dei dolori addominali – che furono diagnosticati di appendicite lo tormentarono talmente da essere costretto a chiedere di essere sostituito e partimmo così da Tripoli nell’aprile del 1919 per tornare in Patria. Di quel triste periodo molte cose potrei raccontare che non farebbero grande onore a persone che occupavano allora posti elevati; meglio tacere di quelle e ricordare invece qualche simpatico episodio. Come quello del giovanissimo tenente Adriano Monaco – nipote di un caro amico e compagno d’armi di Gherardo – il quale, appena giunto il Comandante delle Truppe in Colonia, gli si era subito presentato per chiedere di poter anch’egli andare a combattere l’austriaco alla fronte italiana: ma venuta la notizia – che ci colmò tutti di gioia e di entusiasmo – di Vittorio Veneto, si presentò di nuovo, immediatamente al suo Comandante per dirgli che ora chiedeva di rimanere, visto che ormai ci sarebbe stato da menar le mani in Colonia. E mi ricordo anche di un episodio nel quale fui implicata anch’io e che mi costò una buona e meritata lezione; e tutti ne risero.
Si era presentato a me, a Tripoli, un tenente – di cui non ricordo il nome – per chiedermi di intervenire presso mio marito in suo favore; non ricordo neppure di che si trattasse. Io mi ero rifiutata di far cosa che sapevo mal fatta; sapevo che mio marito non avrebbe sopportato un mio intervento qualunque nelle cose d’ufficio – e sentivo anche ch’egli aveva perfettamente ragione. La preghiere del tenente però furono così vive e fatte per di più in nome di una mamma bisognosa di conforto – si trattava forse di una licenza – che finii col promettere di parlarne a mio marito. E lo feci: accorgendomi subito però dell’effetto poco buono che le mie parole facevano su Gherardo. Ne chiesi scusa e confessai il mio torto; ma non ebbi né rimproveri né altra risposta. Pochi giorni di poi seppi che il tenente era agli arresti: e la ragione del castigo era proprio per aver ricorso a me, in cose d’ufficio.
Tutti ne risero ed io mi ebbi la lezione che mi spettava e se ne avessi ancora avuto il desiderio d’occuparmi di cose che non mi dovevano riguardare, mi sarebbe certo servita. Gherardo rise molto della mia mortificazione, ma comprese che questa non era causata dalla soluzione che faceva ridere gli altri; ma per aver dato a lui materia di rimprovero con la mia condotta. In quel tempo a Tripoli come in Italia infieriva la febbre così detta spagnola e Gherardo tornando – nel tempo in cui egli era ancora a Tripoli – da una visita fatta all’ospedale, mi riferì che erano senza personale perché tutti inservienti e piantoni erano ammalati, o, peggio, morti. Mi ricordai allora di essere infermiera e gli chiesi di poter andare a prestare servizio. Egli acconsentì e prese accordi col colonnello Direttore dell’ospedale ove mi presentai – due giorni dopo – accompagnata da mio marito. Ricordo che usciva dall’ospedale, mentre noi arrivavamo, il funerale di un giovane tenente – medico morto di spagnola ed il capitano di guardia che ci ricevette era così impressionato per quella morte da accogliermi con parole angosciate, consigliandomi a desistere dall’intenzione di prestar servizio di infermiera, perché “qui si muore, signora!” furono le sue parole.
Io comprendevo perfettamente il suo stato d’animo e chiesi se la mia opera avrebbe potuto essere utile ed egli allora mi guardò negli occhi e vide la mia ferma intenzione di compiere il mio dovere, guardò il suo generale che non aveva mosso ciglio, lasciando me arbitra di decidere e comprese con chi aveva da fare. Così entrai di nuovo nella mia veste di infermiera a prestare servizio presso i soldati sofferenti. Ma la mia missione in Libia fu quasi più dura e crudele che alla fronte di combattimento: quei poveri soldati che venivano ricoverati all’ospedale erano in uno stato tale di esaurimento da non poter sopportare l’assalto del male terribile. La difficoltà dei rifornimenti per la nostra colonia d’oltremare era tale – per la lotta dei sommergibili tedeschi – che quei poveri soldati avevano, da che era cominciata la guerra, sofferto tanto la fame da averne un esaurimento fisico tale che la spagnola aveva presa su di loro in modo nefasto: e pochi se ne salvavano pur troppo! Dico la verità che il ricordo di quel periodo mi è ancora vivo e doloroso assi più di quanto non fosse stato il periodo della guerra e lo strazio dei corpi dilaniati. Finii, dopo qualche mese di lavoro intenso, con l’ammalarmi anch’io: non molto gravemente però; ma fu necessaria una piccola operazione ch’io sopportai felicemente.
Rimasi però molto indebolita ed allora mio marito mi pregò di sospendere la mia attività d’infermiera fino a che non avessi recuperato tutte le mie forze. Ubbidii, quantunque a malincuore perché l’opera di una donna nell’ospedale di Tripoli era forse più benefica che alla fronte. Gli avvenimenti poi, mi impedirono di riprendere il mio compito. Fui molto grata a mio marito di non essersi opposto alla mia azione di carità e ricordo quel tempo come il più buono e felice passato in Colonia: anche i medici con i quali ho lavorato erano fa i migliori e la loro opera benefica, la loro compagnia furono un’oasi nel deserto, per me, in quel tempo. Camminavo un giorno per la via spaziosa di Tripoli, lungo il mare; ero appena uscita di convalescenza ed il sole invernale mi aveva un po’ stordita. Dietro a me veniva un veicolo tirato da un cavallo, sentivo il passo dell’animale: ma non pensavo a sottrarmi al pericolo di un investimento perché la via era così larga che il cavallo, o meglio il suo conducente avrebbe avuto spazio per scansarmi. Invece accadde che ne fui quasi investita: mi volsi verso chi guidava la bestia e lo redarguii perché mi ero spaventata. Egli tirò innanzi senza far parola: era un marinaio che io vidi pochi passi più avanti fermarsi, scendere dal veicolo quasi attendendomi. Confesso di aver avuto paura che volesse rispondere male al mio rimprovero, perché invero avrei dovuto io scansarmi; non volevo però mostrare di volerlo schivare e continuai la mia strada. Quando gli fui vicino, vidi che si levava il beretto e che mi accoglieva con fare così umile e compunto che mi meravigliò. Era – lo riconobbi poi – un degente all’ospedale, ch’io avevo curato. Mi chiese scusa: “Voi che siete stata così buona per me, come una madre – mi disse – ed io per poco non v’investivo!” dovetti confortarlo, dicendo anche il mio torto; ma lui non voleva ammetterlo questo e continuava a chiedermi scusa e a pregarmi di lasciare che mi baciasse la mano. Fui commossa veramente di quella dimostrazione di gratitudine che mi compensò di tante tristi ore e meschine che, anche in quel periodo della mia vita, erano venute a mostrarmi quanto sia bassa e vile la natura umana.
Il viaggio
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