Mestieri
consulenteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
IndiaData di partenza
1998Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Silvia e Paolo vivono una lunga parentesi alla scoperta dell’area nord-occidentale dell’India e in particolare del deserto del Thar, nonché della città di confine, verso il Pakistan, di Jaisalmer. Anche in questo frangente riescono a immergersi nella vita locale.
Nabav è un ragazzo semplice, ma ha modellato il suo comportamento sull’attività a contatto coi turisti (fa il simpatico, sottolinea gli aspetti “pittoreschi” della loro vita, ci incoraggia a fotografare, mi fa gli occhi dolci) e ha perso la testa per il mondo che rappresentano: è sposato da poco ma passa al villaggio il minor tempo possibile, preferisce stare in città, anche quando non c’è lavoro. E’ affascinato dal cinema, dalle ragazze straniere, dai caffè; vuole apparire moderno, mondano, divertente. Bullah, invece, è un uomo schivo. Parla poco ma è di modi gentili e premurosi. La prima sera, accampati presso le dune, Nabav ci ha lasciato subito dopo cena per aggregarsi ad un gruppo di turisti di cui fanno parte anche due ragazze giapponesi. Bullah è rimasto e, davanti al fuoco che piano si spegneva, ci ha raccontato dei suoi incontri con altri stranieri, di safari durati anche quindici giorni, di una volta che un inglese è stato morso da un serpente e lui ha cavalcato tutta notte per riportarlo a casa. Il suo inglese è molto povero, e si vede che se ne vergogna: quando non capiamo sorride imbarazzato e abbassa lo sguardo, cercando affannosamente le parole. Quella notte ci addormentiamo sotto una coperta fitta di stelle, ma dopo qualche ora si alza un vento violento; la sabbia delle dune riempie l’aria, passa oltre la trama del lenzuolo e ci entra nelle orecchie, in bocca, fra i capelli. Sono dune piccole e il danno non è grave; il giorno dopo le nostre scarpe e parte degli zaini sono coperti di sabbia. Noi milanesi abbiamo dormito solo poche ore, Bullah non si è mai svegliato.
Il giorno successivo Nabav si sente male e nel primo pomeriggio ci abbandona. Siamo contenti di restare da soli con Bullah, anche perché passeremo quella sera nel suo villaggio. Ci arriviamo a pomeriggio inoltrato, superando un laghetto dove i bambini fanno il bagno e giocano a lavare un povero asinello. Il villaggio ha case di argilla coi tetti di paglia. Intorno ad ogni casa un muretto delimita un piccolo cortile. Sulla soglia del villaggio incontriamo due bambini: sono i figli di Bullah, che la moglie ha mandato avanti ad accogliere il padre. A causa del lavoro, Bullah riesce a passare da casa solo una volta alla settimana, talvolta anche ogni quindici giorni. Forse è questo il motivo per cui i suoi bambini sembrano un po’ intimiditi. Lui li stringe ridendo, li solleva in braccio e ce li presenta orgoglioso: “My boys!”. Davanti a casa lo attende una donna bellissima e fiera, che tiene in braccio una bambina. Bullah sorride, lei resta immobile; non si scambiano nessun gesto di affetto. Lei ci saluta con un cenno del capo. Pensiamo sia bello lasciarli soli e ci allontaniamo seguiti da un codazzo di bambini. Ci sediamo su un muretto, e subiamo esausti la raffica di rito di domande in inglese: “Hallo! How are you? What’s your name? Where are you from?”.
Passa quasi un’ora e cediamo; decidiamo di riparare nel cortile di Bullah. Qui scopriamo tristemente tre cose:
- che nel villaggio non esiste alcun concetto di privacy, e che quindi il cortile di Bullah non ci ripara per nulla dai bambini, che anzi ci sciamano dietro ridendo e si accampano ai nostri piedi con un’aggiunta di cuginetti e nuovi amici 2. che il nostro sacrificio è stato del tutto inutile perché Bullah e la moglie non ne hanno approfittato per godere dell’intimità, ma si sono messi a cucinare il mitico “pollo del deserto”, che ci è costato un occhio della testa ma ci hanno promesso essere fantastico 3. che “la doccia” che Bullah ci aveva promesso è un catino posto in un angolo, praticamente sotto gli occhi dei quindici bambini, col quale possiamo a malapena sciacquarci un po’ la faccia. Non osiamo chiedere del sapone e facciamo bene, perché non ce n’è.
Appoggiamo la schiena al muretto di recinzione e smettiamo di rispondere alle domande dei bambini. Bullah ci porta un bel pentolino di tè ma poi scappa nuovamente nella capanna. Arriva suo suocero, si siede accanto a noi, ci chiede qualcosa che non capiamo e si mette a fumare. Siamo stanchi e ci sentiamo troppo lontani, troppo isolati, incapaci di comunicare e diversi per poterci godere la situazione. Sentiamo il peso di non essere abituati a questa vita, di aver mangiato poco e di avere addosso appiccicata tutta la sabbia della sera prima. I bambini non smettono di parlare. Finchè, come d’incanto, i bambini tacciono e si sente il rumore dei grilli, del bestiame e delle pentole poste sui fuochi. Dico a Paolo: “Pensa quanto siamo lontani”, mentre il buio cola sul cielo. Bullah e sua moglie escono finalmente dalla capanna e ci portano trionfanti la cena.
Il “pollo del deserto”, purtroppo, è solo una versione denutrita del pollo comune. Inizialmente ognuno di noi due pensa di essere stato sfortunato e di aver preso i pezzi senza carne ma, dopo un breve consulto, ci rassegniamo all’idea che alle ossa siano attaccate solo un po’ di pelle e i legamenti. C’è un clima di festa, allegro, la moglie gioca coi bambini. E’ davvero molto bella, e mostra coi figli l’affettuosità un po’ ruvida delle leonesse coi loro cuccioli: se li lascia saltare in grembo e sul collo finchè, improvvisamente, li scrolla di dosso con uno strattone, o li allontana con uno sculaccione. Solo verso la bimba, che ha meno di un anno, si dimostra intenerita e protettiva. Stiamo parlando e chiedo a Bullah se i cammelli che stiamo utilizzando siano suoi. Lui ride: “No, magari! Uno è di mio padre, e gli altri due di mio suocero”. Immaginiamo che debba pagarne quindi l’affitto. Continua: “Mi piacerebbe comprarne uno mio ma costa molto: 10.000 rupie!” Io non mi sono mai sentita così a disagio, così viziata in tutta la mia vita. Diecimila rupie, che equivalgono a circa 400.000 lire erano il prezzo di partenza che avevamo concordato con un commerciante di Jaisalmer per l’acquisto di un bel tappeto nomade, realizzato cucendo in un patchwork gli ornamenti dei cammelli, tutti di colore giallo e ocra. Contavo di far scendere il prezzo di altre cento, centocinquanta mila lire, ma mi era comunque parso un prezzo ragionevole. Che lo fosse o meno in base ai nostri parametri occidentali, ora mi accorgo che quella cifra, che io posso permettermi di spendere per un tappeto, potrebbe cambiare il tenore di vita di una famiglia intera.
E’ stato il momento in cui abbiamo maggiormente toccato con mano la disparità incredibile di potere di acquisto nostra e degli indiani. Questa disparità giustifica, in parte, il loro atteggiamento rapinoso: per noi pagare un rickshaw 1.000 lire o 3.000 non cambia molto: loro con le duemila lire di differenza cenano tutti per una sera. Il problema è che questa sproporzione crea dannosi divari di reddito fra le persone che hanno rapporti commerciali coi turisti e il resto della popolazione, distorcendo il loro stile di vita: la possibilità di guadagnare in un colpo solo, con un piccolo imbroglio o una buona contrattazione, quel che altrimenti si guadagnerebbe con una settimana di lavoro, spinge molte persone ad abbandonare il loro lavoro e riversarsi in città, dove vivono di espedienti e di traffici inconsistenti e precari sulla strada.
La moglie di Bullah ha estratto dalla capanna il loro letto, e capiamo che è ora di andare a dormire. Bullah ci accompagna sul tetto del pozzo, a una decina di metri di distanza, dove ci accampiamo con le nostre coperte e lenzuola. Ci addormentiamo sotto un coperchio di stelle, ma anche questa volta il tempo non è clemente col nostro sonno. Sono passate forse un paio d’ore da quando ci siamo coricati, quando aprendo gli occhi vedo uno spettacolo affascinante e insieme spaventoso: il cielo, in lontananza, si è coperto di uno strato sottile di nuvole nere nere, e decine di bagliori rossi e viola ne illuminano a giorno la parte superiore. L’orizzonte qui è piatto e si vede molto lontano: deve essere per questo che abbiamo la stranissima sensazione di riuscire a vedere, in profondità, sopra alle nubi. E’ come se il cielo fosse diviso in due in senso orizzontale: sotto uno spazio compresso nero pece, sopra una grande volta ingombra di nubi, che pare illuminata da decine di luci al neon rosse e difettose. Restiamo per un’ora a guardare lo spettacolo affascinati e vagamente tremebondi, rassicurandoci vicendevolmente circa il fatto che si vede benissimo che le nuvole non stanno venendo verso di noi ma stanno semplicemente transitando all’orizzonte. Quando risulta evidente che non è vero, e che il cielo si sta rapidamente coprendo anche sopra il nostro capo, ci viene in mente che questo è un anno di monsoni particolarmente violenti, e che in Bangladesh centinaia di villaggi sono stati sommersi dal nubifragio. Se venisse un nubifragio l’unico rifugio sarebbe costituito da capanne di argilla col tetto di paglia, che al primo fulmine prenderebbero fuoco come cerini, non ci sono telefoni per comunicare né auto o autobus per togliersi di qui. Panico.
Si è fatto un buio pesto e la sabbia alzata dal vento ci entra negli occhi Sentiamo che nel paese qualcuno si muove e si ripara nelle capanne, e decidiamo di rifugiarci da Bullah. Lui dorme. Lo svegliamo inciampando nelle nostre coperte nel rovinoso tentativo di fare in fretta senza troppo rumore. Bullah si scuote, gli mostriamo il cielo e ci acquattiamo contro il muretto. Sua moglie in cinque minuti raccatta i figli, qualche coperta e scompare nella capanna dei suoceri, lui ci fa segno di entrare nella sua. Non aspettavamo altro: ci precipitiamo abbandonando nel cortile una quantità di lenzuoli, scarpe e maglioni che Bullah raccoglie pazientemente e ci porta nella capanna. Ci offre il suo letto matrimoniale, che di fatto è molto stretto. Sopra di noi tira un vento furioso. Me ne sto rannicchiata su questo letto di canna e corda, e penso che non mi sono mai sentita così piccola di fronte alla natura.
Il giorno dopo, alle sei, dopo un paio di ore di sonno, mettiamo fuori il naso dalla capanna e ci accorgiamo che tutto il paese è già sveglio e che il cielo è coperto. Sono tutti molto arrabbiati perché non ha piovuto neanche una goccia, mentre scopriremo fra alcune ore che solo qualche chilometro più in là è tutto allagato. Io approfitto del fuoco acceso dalla moglie di Bullah per scaldare del tè per guardare la capanna: a parte il letto, una panca e alcune coperte, ci sono solo il focolare e un certo numero di pentole. Tutto è molto pulito e ordinato. Facciamo colazione insieme, nuovamente circondati dallo stuolo di bambini. Poi salutiamo tutti e partiamo. E’ l’ultimo giorno, ed è previsto il cammello solo fino a mezzogiorno, poi verranno a raccoglierci con la jeep.
Il viaggio
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IndiaData di partenza
1998Periodo storico
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