Mestieri
consulenteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
IndiaData di partenza
1998Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Durante la loro permanenza a Dheli, Silvia e il marito Paolo incontrano l’economista Jean Drèze noto per i suoi studi sull’economia dello sviluppo e per le collaborazioni con il premio Nobel Amartya Sen. Sono ospiti a cena a casa sua, un’esperienza che li coglie di sorpresa poiché Jean vive in un sobborgo della città all’interno di una piccola e malmessa dimora.
8 settembre
Ha quarant’anni ma ne dimostra meno di trentacinque, è famoso, ha scritto due libri con un premio Nobel per l’economia ma ha modi timidi e impacciati. La prima volta lo incrociamo sulle scale: ha dei limpidi occhi azzurri e un pizzetto biondo e rado, mani bianchissime, da nordico, e un sorriso gentile. Durante i nostri primi giorni di permanenza è cortese e premuroso, ma sempre molto indaffarato. Un giorno ci dice: “Dovete venire a casa mia”, e ci invita per il mercoledì successivo. Sappiamo che vivere in India non è per lui una scelta casuale, che ha vissuto molto tempo in un villaggio dell’Uttar Pradesh, una delle zone più povere dell’India, e che è impegnato in una cooperativa contadina in Rajasthan. Ci domandiamo in che tipo di casa possa abitare. Un primo indizio l’abbiamo la sera prima, quando ci viene a trovare alla guest-house. Si guarda intorno e chiede come ci troviamo. Gli rispondiamo che è un alloggio molto semplice ma confortevole. Lui sorride e dice: “Beh, è più grande di casa mia”. La nostra stanza non è più grande di 20 mq. Ci ha fatto un disegnino e ci ha spiegato di abitare vicino a un ex-ospedale occupato, ma trovarlo non è immediato. Ci perdiamo un paio di volte, finiamo in quartiere di case popolari. Poi arriviamo ad uno slum. Sul foglio ha scritto “Flat B25″, ma Paolo dice che lui, sorridendo, aveva aggiunto che non era propriamente un appartamento. Chiediamo ancora; sono tutti molto gentili e ogni volta che ci fermiamo a parlare con qualcuno si forma un piccolo assembramento. Finalmente un ragazzo chiede: “Ma voi cercate uno straniero?” e ci porta alla sua casa. E’ un cubetto di mattoni alto un metro e mezzo, col tetto di lamiera. Dentro la stanza è larga meno di dieci metri quadri; contiene un fornelletto a gas, un tavolo e un attaccapanni. Dal muro pende una lampadina e per terra gira un ventilatore. Drèze non c’è; ci accoglie sulla porta un signore dalla pelle molto scura, che con larghi gesti ci invita ad entrare. Dentro, accucciata per terra, c’è una donna che cucina. Sulle prime siamo un po’ perplessi, anche un po’ diffidenti, non sappiamo cosa fare. Ma il signore insiste e così ci accomodiamo. Quando lo vediamo arrivare con due sedie gigantesche prese a prestito nella casa adiacente e che occupano metà dello spazio disponibile, capiamo di essere attesi e che la casa è quella giusta. Appesa al muro riconosco anche la borsa di stoffa di Drèze. Lui arriva dieci minuti dopo, tutto affannato: si è accorto di averci dato delle indicazioni confuse e si era preoccupato. L’uomo e la donna hanno continuato a cucinare, rivolgendoci ogni tanto dei sorrisi. Drèze ci spiega che lei è la sua vicina, che ha ventinove anni e che è vedova da due. E’ una donna forte e tenace: mantiene i quattro figli, la madre e i suoceri col suo lavoro di donna delle pulizie. Sta facendo studiare i figli; aggiunge: “E’ l’unica possibilità per migliorare anche la propria condizione: se loro staranno meglio, anche lei vivrà una vecchiaia tranquilla”. Guardiamo quella donna e a noi pare dimostri più di quarantanni. L’uomo, invece, vive con Jean. Gli chiediamo come l’abbia incontrato, che nelle nostre intenzioni è un modo per chiedergli come abbia deciso di andare a vivere lì. Lui forse capisce ma elude la domanda: “L’ho conosciuto a Palanpur, dove ho passato un anno, sai quel villaggio che abbiamo studiato e descritto nel libro…. Dopo qualche anno dal mio ritorno a Delhi ho saputo che voleva trasferirsi qui, e l’ho invitato. E’ un’ottima sistemazione perché io vado e vengo, sono qui poco più di sei mesi all’anno, ed è bene che la casa sia abitata. Poi lui è bravissimo come elettricista, come muratore: è stato lui a fare l’impianto elettrico e a sistemare il pavimento” “Da dove prendete l’elettricità?” “La rubiamo: attacchiamo un filo ai fili della luce”
Torniamo all’attacco: “E come hai trovato questo posto?” Lui elude ancora una volta la domanda: “L’ho comprato. Cercavo una casa, e questa mi è piaciuta. Così l’ho comprata. Questo è un posto molto tranquillo e silenzioso. C’è vicino anche un posto di polizia. Si sta bene. Comprare e affittare queste case è una cosa molto comune, per quanto possa sembrare strano. Costruirle no, è un problema: la polizia è molto attenta e viene a demolirle. Però c’è molto spazio per il miglioramento: spesso nascono come baracche di legno, poi diventano in muratura. Questa è una casa molto semplice, ma qui accanto i miei vicini hanno la televisione, la moto”. “Quando le loro condizioni di vita migliorano non cercano un posto migliore?” “Alcuni sì, cercano un posto più grande e magari affittano questa casa (a 100 rupie al mese, circa 4.000 lire), ma la maggior parte no. Restando qui possono permettersi uno standard di vita molto migliore, mentre altrove l’affitto assorbirebbe la gran parte del loro reddito. Vi ripeto, qui si vive molto bene”. “Come sono i rapporti di vicinato?” “Normali; ogni tanto qualche discussione. Non c’è molta vita comune, vita sociale, se è questo che intendete. Ogni famiglia tende a badare per sé. Manca anche la capacità di organizzare delle strutture comuni. Una volta ho proposto di fare una colletta per costruire un bagno di mattoni per le donne: i bagni pubblici comuni qui sono infrequentabili, gli uomini vanno nei giardini, ma le donne devono arrangiarsi in casa, che è un problema perché non tutte le case hanno uno scolo appropriato e pulire può essere complicato. Sarebbe bastata una piccola colletta; per costruire un bagno ci avrebbero dato l’autorizzazione. Nessuno è parso interessato.”
Decidiamo di affrontare la questione della sua scelta di vita in termini più diretti: “Ci racconti la tua storia?” Lui sorride e cede. “Sono venuto qui la prima volta nel 1979; non avevo intenzione di fermarmi più di un anno. Pensavo di fare un corso master, non mi occupavo ancora propriamente di economia dello sviluppo, avevo letto qualcosa. Fondamentalmente volevo passare un anno nel terzo mondo. Mi hanno detto che non esistevano corsi master, ma che potevo iscrivermi ad un Phd, e che poi anche dopo un anno sarei potuto andare. Mi sono iscritto, e poi ho deciso di continuare. Allora vivevo nella guest house dell’università, a sud di Delhi, ma non mi piaceva. Era un posto molto protetto, aveva addirittura le guardie all’ingresso. Avevo degli amici che facevano gli assistenti sociali e vivevano in uno slum; passavo molto tempo con loro e ho fatto amicizia con persone che ci abitavano. Io li andavo a trovare e loro mi venivano a trovare. Ma sentivo un grandissimo disagio. Non mi sentivo bene quando venivano alla guest house e cercavo di incontrarli fuori. Alla fine ho deciso di andare a vivere lì. Quando ho finito il Phd sono andato a vivere un anno a Palanpur, questo villaggio che abbiamo studiato. E’ stato molto bello. Poi sono tornato a Delhi, in un altro slum, sotto un ponte della ferrovia. All’epoca era piuttosto malandato, però era un posto tranquillo; ora anche lì le condizioni di vita sono molto migliorate. L’anno dopo sono andato a Londra, a LSE, come lecturer. E’ stato lì che ho incontrato Amartya Sen e ho cominciato a lavorare con lui. Però quel lavoro a tempo pieno, a Londra, non mi piaceva: non sono il tipo da posto fisso, e poi avevo la sensazione che qui si potesse essere un po’ più utili. Non molto, però dare un contributo. Da allora ho un posto come visiting professor qui all’Istituto di Development Economics, e passo qui sei mesi all’anno. Nel frattempo avevo cambiato nuovamente slum, ma non mi piaceva: c’è stato qualche episodio di violenza, gente che beveva; così mi sono trasferito qui”. In tutto il suo discorso, e in quelli che farà nel corso della serata, non c’è alcun compiacimento, nessun accenno a discorsi morali, a scelte di vita. Tutto viene posto nei termini di scelte che lo hanno fatto sentire maggiormente a suo agio, più sereno. Sembra anche molto aperto rispetto al suo futuro: ammette che non è facile invecchiare in India, e ci dice che non sa che tipo di contratto gli faranno allo scadere dei tre anni: “Se mi offrissero un posto da full professor lo accetterei volentieri, ma non credo che lo faranno”.
Nel frattempo è pronta la cena. Le due persone che cucinano hanno preparato un mucchio di roba. Riusciamo a convincere il compagno di Jean che stiamo molto comodi anche seduti per terra e scendiamo dalle sedie-trampolo che ci facevano sentire a disagio. La donna si dà molto da fare: estrae dei vassoi e ci serve delle porzioni gigantesche che io riusciamo a malapena a finire. Dal modo in cui lo guarda, pare provare per Jean grande affetto e gratitudine. Si vede che tiene a fare bella figura coi suoi ospiti e che è molto emozionata. Lo stesso fatto che abbia cucinato una tale varietà di cibo e in tale quantità ne è una prova. Ormai abbiamo un’idea di quanto poco mangi la gente in questo paese. Lo guardo mangiare e ricordo una delle prime conversazioni che abbiamo avuto. Parlandogli del deserto gli avevo detto: “E’ incredibile, ci sono villaggi in cui non c’è la luce, l’acqua si prende al pozzo e la gente mangia ancora con le mani…”. In India mangiano tutti con le mani. Anche lui. Arrossisco fino al profondo delle viscere. Gli chiediamo se lui faccia qualche tipo di attività con queste persone: “No. Vivo qui, sto con loro e basta. Mi piacerebbe organizzare qualcosa per migliorare l’istruzione dei bambini: la scuola è lontana, i genitori lavorano, finisce che spesso i bambini non vanno a scuola. Se anche ci vanno, questo non è l’ambiente giusto per studiare: non c’è un posto dove scrivere, è difficile concentrarsi. Ma c’è il problema che non abito qui tutto l’anno, e poi non so se fra due anni sarò ancora qui. Non ci si può prendere un impegno simile senza garantire una presenza costante e affidabile almeno per cinque o sei anni. Così partecipo a dei progetti per promuovere l’istruzione dei bambini, ma lo faccio a livello cittadino, attraverso organizzazioni che hanno una vita propria”.
Il viaggio
Mestieri
consulenteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
IndiaData di partenza
1998Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Gli altri racconti di Silvia Melloni
Una distesa di slum
14 agosto, Bombay Guardiamo oltre il finestrino e ci sembra di atterrare sui tetti delle baracche: l'ultima...
Il pollo del deserto
Nabav è un ragazzo semplice, ma ha modellato il suo comportamento sull'attività a contatto coi turisti...
Incontri e confronti
18 settembre Li andiamo a prendere nella guest house dove sono alloggiati, a poche decine di metri...