Mestieri
giornalistaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Repubblica CecaData di partenza
1953Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)La vita a Praga negli anni ’50, segnata soprattutto dalle rigidità del clima e del regime filosovietico, nei ricordi di Paola Oliva Bertelli.
Al di là della tensione per le battaglie politiche la vita poteva anche essere serena. Ricordo le sere di carnevale. Non avevo mai visto una cosa del genere, anche perché a Roma, il carnevale da tempo non era più quello delle corse dei bèrberi né degli scherzi raccontati dal Belli o da Pinelli, ma era soltanto una festicciola per bambini mascherati. Invece a Praga si trattava di un rito preso con tutta serietà. Non usavano le maschere come in Italia. Naturalmente eravamo sotto zero, le strade erano gelate, la gente non camminava sui ponti, ma scivolava sulle lastre di ghiaccio della Vltva, non so perché in Italia il fiume viene chiamato Moldava. In strada si formavano file di ragazze imbacuccate e cariche di grandi borse, seguite dalle madri altrettanto infagottate che tenevano, col braccio teso, il vestito da ballo appeso a una stanga per non sgualcirlo. Nelle borse c’era tutto l’occorrente per la trasformazione: il trucco, le scarpette a punta, lo scialle colorato, i fiori da infilare nei capelli. Arrivate nel locale, scendevano di un piano dove si trovavano i bagni con ampi saloni. Davanti agli specchi che coprivano le pareti, mensole e seggioline permettevano di preparare trucco e abbigliamento. Le ragazze, aiutate dalle madri, si spogliavano degli indumenti pesanti e si trasformavano in tante ballerine con l’abito vaporoso come quelle di Degas, pronte per la festa. Il locale a pianterreno diveniva un deposito disordinato di pantaloni, maglioni, colbacchi e stivali. Anche noi avevamo imparato a portare sempre il cambio. In ufficio restavo con le maniche corte e i sandali, pronta a infagottarmi per uscire. In casa restavo con la sottoveste, perché il caldo era eccessivo. In tal modo, ci caricavamo di calore all’interno e, quel poco tempo che stavamo in strada, non era sufficiente per congelarci.
Vàzlasky Nàmiesti, ma non solo, era attraversata ai lati da grandi striscioni rossi con scritte in lettere dorate. Uno diceva: la lampadina sovietica è la migliore nel mondo. Tutte le scritte inneggiavano l’URSS definita baluardo di pace e noi ci ridevamo sopra, perché le trovavamo puerili e stupide. Cosa aveva la lampadina fabbricata nell’Unione Sovietica di diverso da quella fabbricata in Italia? Ovunque fotografie di dirigenti sovietici e cechi. Trovavamo tutto molto stupido. Nei negozi e’ k. soprattutto maiale insaccato e affumicato, crauti sotto aceto, grandi barattoli di cetrioli in salamoia o con l’aceto. Vendevano anche il sale negli alimentari, mentre da noi all’epoca si comprava soltanto dai tabaccai. C’erano anche negozi con cibi preparati, come la cotoletta alla milanese o patatine appena fritte, polpette pronte e altro ancora. Vendevano degli squisiti granchi in scatola, i krabi, della siberiana penisola Kamciatka. Erano pezzi grandi che condivamo con la maionese. Non ho mai visto pomodori, ma tanta tanta verza e cavoli di ogni tipo. Di olio d’oliva, pomodori, agrumi, neanche a parlarne! Se non si trovava un prodotto in un negozio, era inutile cercarlo in un altro. Significava che la produzione prevista dal piano quinquennale era stata calcolata male. Bisognava aspettare anche un mese. Ci piaceva andare nelle fabbriche di quartiere che producevano ottima birra. Si poteva anche consumare qualche piatto della cucina popolare che in mensa non facevano mai. Le fabbriche erano aperte solo per l’objed, il pranzo, per evitare gli ubriachi della sera che riempivano le strade soprattutto il sabato. Da quando ho vissuto a Praga, mi sono convinta che la birra è buona soltanto se bevuta appena fatta.
Quando, finito il turno lungo, verso mezzanotte, in strada aspettavamo il tram che ci portava alla villa, per scaldarci mangiavamo, anche se non avevamo fame, un horky pàrek, il salsicciotto caldo di maiale. L’ambulante li vendeva in strada e li lessava dentro una grande pentola sempre fumante Sembrava fosse lì per aiutarci a sopravvivere. Ci dava un pezzo di carta con sopra il pàrek bollente, aggiungeva, sbattendo con forza con un cucchiaio di legno, la senape gialla e una fetta di kleb, il pane nero. Quando si superavano i venti gradi sotto zero, il salsicciotto caldo era la nostra salvezza. Tornata in Italia, per anni non ho voluto mangiare né i salsicciotti (wuster) né il prosciutto di Praga, cioè quello che da noi si chiama “cotto”. Ne avevo abbastanza. Il freddo era un nemico da affrontare. Indossavamo indumenti di una materia che dava calore e che non conoscevo. In strada non si restava molto. Nei mesi invernali i negozi abbassavano i prezzi per consentire a tutti di acquistare abbigliamenti adeguati. C’erano in alcune strade, anche i baracchini ,come noi li chiamavamo, piccoli banchi per il caffè alla turca. In bricchi di rame dal manico lungo, mettevano acqua, zucchero e polvere di caffè. Posto sul fuoco, la miscela veniva in continuazione mescolata, in modo che non uscisse dal pentolino. Lo servivano in bicchierini di vetro e bisognava aspettare che la polvere si depositasse prima di bere. Non era cattivo. Sempre meglio di quello che si beveva nei locali, le kavarny.
Ma quanto potrà essere più freddo di così? Mi chiedevo. Superati i dieci sotto zero, pensavo che i dodici non sarebbero stati poi così tremendi. Dopo i dodici aspettavo i quindici, ma arrivati ai diciassette, mi convincevo che nulla avrebbe potuto essere più terribile. Mi facevo coraggio e resistetti ai ventisette gradi sotto zero. Mi sentivo ridicola con mutandoni di lana lunghi fino al ginocchio, pantaloni, due-tre maglioni, calzettoni, stivali foderati di pelliccia, cappotto e colbacco. Anche i guanti erano foderati di pelliccia. La sciarpa mi copriva la bocca e l’alito si trasformava subito in ghiaccio. Ma era il naso che mi doleva, perché all’interno si formavano ghiaccioli che facevano male. Così ogni tanto ce lo strofinavamo l’un l’altro. Non ho mai voluto mettermi i copriorecchie e, per fortuna non ho avuto conseguenze. Ero affascinata dallo scintillio dei rami degli alberi colmi di cristalli di ghiaccio ed io mi incantavo a guardarli così come mi incantavo a vedere la gente pattinare sul Vltva gelato. Provai anch’io il brivido di attraversare il fiume a piedi. Anche se tremavo dalla paura. Ricordo che un anno nevicò il 1° maggio, durante la sfilata che durava ore e ore. Una mattina, mentre scendevo in fretta la collina di Pankràz, un bambino che dava la mano alla mamma, mi indicò col dito e disse: ” Mamìnku, vidisc? Babìcku!”, mamma, guarda la befana. Avevo ventidue anni, ma conciata in quel modo sembravo davvero la vecchietta. Nel periodo del disgelo, quando tutte le strade diventavano fiumi, centinaia di persone restavano affacciate alle balaustre dei ponti per guardare lo spettacolo dei pezzi di ghiaccio galleggiare sull’acqua. Ogni anno qualcuno incosciente moriva annegato sotto le lastre della Vltva in disgelo. Non potevamo rivolgerci sempre a Carlo e decidemmo di comprare un vocabolario ceco-francese. Imparare qualcosa della lingua non fu facile. E non posso dire di averla studiata, anche perché non mi piaceva. Non avevamo rapporti con i cechi e, quindi, non era necessario sapere parlare. Imparai l’essenziale. Oltre a dobryden, dobryvecer, dobrunoz, imparai subito kolik stoi? quanto costa? E i pesi per fare la spesa. Altra parola magica era prossim vas, equivalente al nostro per favore, vi prego. Prossim vas andava bene in qualsiasi momento e in ogni occasione. Non si poteva fare niente senza il prossim vas seguito sempre da diequi, grazie. Imparammo per avere due birre bisognava dire che volevamo due volte la birra, dva krat pivu. Il difficile erano le declinazioni e- così io mettevo tutto all’accusativo e molte volte nessuno mi capiva.
Il viaggio
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