Mestieri
macchinistaLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
Stati Uniti d'AmericaData di partenza
1996Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Accolti dal cugino Mario, scienziato aerospaziale, Andrea e i figli arrivano a Cocoa Beach, in Florida, nei pressi della base della Nasa dalla quale assisteranno al lancio di uno shuttle nello spazio.
Contrariamente al “John Fitzgerald Kennedy” di New York, l'”MCO” di Orlando è veramente moderno e funzionale: in questo momento non c’è molta gente, ma si capisce che è stato realizzato con più criterio, cercando di dare ogni tipo di comfort ai viaggiatori. Non appena scesi dall’aereo, troviamo un servizio navetta chiamato “Shuttle”, tipo metropolitana, che ci porta all’atrio arrivi dell’ingresso principale, dove finalmente incontriamo Mario. Tutte le nostre paure di perderci sono finite! Dopo i saluti ed il ritiro dei bagagli, che, a dire il vero, mi pare assai approssimativo, visto e considerato che si tratta di una specie di self service incontrollato, si telefona casa. Alle 21,46 riesco a prendere la linea. Racconto a Mario i miei tentativi di telefonare da New York e mi svela che telefonare da un telefono pubblico non è la cosa più semplice, se non si è in possesso di una carta di credito telefonica. Infatti gli apparecchi funzionano solo a monete che sono del tutto insufficienti per chiamare l’estero. Mario compone il numero della sua carta di credito telefonica prima del numero dell’utente da chiamare. Fedele al suo stile (un colpo qua ed uno là) carica i nostri bagagli a mano su un carrellino che si ostina a voler trainare lui. Quando occorre fare una sosta, come ad esempio in ascensore, Mario si lascia cader dalle mani la sua inseparabile borsa piena di documenti che va a finire a terra con un tonfo sordo. Adesso il problema è quello di trovare la macchina, perché quella che Mario ha noleggiato la mattina ha forato una gomma. Dunque è stato costretto ad affittarne un’altra, la cui ricerca nel garage a più piani ci fa perdere molto tempo. Come temevo, inizia la fase più pericolosa di tutta la “Missione America”, perché l’esperienza di un viaggio in auto con Mario alla guida è infinitamente assai più scioccante dell’intera trasvolata atlantica. Tremo al pensiero che lui voglia affittare un’auto in Italia, se riuscirà a venire per sei mesi. Insomma per non stare a dilungarci troppo, è più sicuro viaggiare con Pilino per il centro di Grosseto che con Mario negli Stati Uniti in un’autostrada a sei corsie.
Ad aggravare la situazione, Mario ha affittato un’auto dalle dimensioni esagerate e che mi pare conosca assai poco: per accendere i fari inserisce i tergicristalli, mentre per pagare i pedaggi ai caselli, apre la portiera e non il finestrino, del quale, del resto, neppure io sono riuscito a trovare l’apertura. Meno male che in auto c’è l’aria condizionata. Siccome ci deve essere anche un Dio degli scienziati e dei macchinisti delle ferrovie in vacanza a Cape Kennedy, in qualche modo si arriva incolumi a Cocoa Beach. A prima vista e di notte, pare che questa cittadina sia un archetipo venuto fuori dai telefilm americani che ci propina quotidianamente Berlusconi, perché lungo la strada principale noto piccole costruzioni per i residenti e numerosissimi locali pubblici con curiosissime insegne luminose. Da questa strada, poi, si diramano piccole traverse laterali. chiamate drive, che portano verso il mare. Sono quasi le 23 e lungo la strada non si vede un passante, ma in compenso è un continuo andirivieni di automobili: qui nessuno si muove senza il macchinone. Del resto, mi rendo conto che gli spazi sono immensi e per attraversare la Main Street ci vuole almeno un minuto, anche se in quel momento non transitano automobili. L’architettonica degli edifici è orrenda: sono tutti ben tenuti ed illuminati a giorno, ma sono stati costruiti con un gusto da far rabbrividire. Dappertutto si notano finte colonne romane o corinzie; gli alberghi hanno tutti un ampio pronao con giardino, ma, di estetica del bello, neppure a parlarne. Il nostro hotel si chiama Holiday Inn ed è un grandissimo residence che, dalla North Atlantic Avenue, arriva fino alla spiaggia. I bungalow, disposti su due piani, sono una quindicina e formano una grande U. La nostra camera è la 225, mentre quella di Mario è la 160. Contrariamente alle sue insistenze, prendiamo solo una perché ci è effettivamente più che sufficiente e poi io desidero avere il controllo sui ragazzi. A parte il fatto che non riesco ad aprire la porta del bagno, la sistemazione mi pare subito discreta; il prezzo è di 180 dollari, ma ancora non so se si intende la pensione completa o il solo pernottamento. Comunque, a mezzanotte e mezza, dopo aver inutilmente litigato con la porta di questo maledetto bagno, mi infilo sotto le coperte del mio letto ad una piazza e mezzo insieme ad Enrico. La giornata solare più lunga della mia vita si è finalmente conclusa.
Il viaggio
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