Mestieri
giornalistaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
IraqData di partenza
2003Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Temi
guerraTemi
guerraMarinella dipinge con pennellate di scrittura, ricordi misti a emozioni, l’indomani della caduta di Saddam Hussein ad opera dell’esercito americano, nell’Iraq del 2003. Marinella è presente, come giornalista e pacifista, e si muove tra gli alberghi accessibili e i luoghi chiave della città assediata.
Tutti (si) chiedono: “Dov’è Saddam adesso?”. E’ scappato in Russia (o in America), è morto, è nascosto. Scherzando dico che si è tagliato i baffi e sta in campagna protetto dal clan dei tikriti, impara a coltivare le cipolle. Poiché a sognare non si fa peccato anche se difficilmente ci si azzecca, aggiungo: Possiamo sempre sperare che un giorno George W., Donald Rumsfeld e tutto il clan dei bushiti debbano un giorno nascondersi da un tribunale internazionale. Si faranno crescere i baffi e si metteranno a coltivare un piccolo campo in Burkina Faso (un incubo in meno per il mondo, un cruccio in più per i poveri burkinabé), guadagnandosi il burro d’arachidi con il sudore della fronte. Come dovremmo fare tutti noi, e più nessuno avrebbe tempo per la guerra, oltre al fatto che una più equa distribuzione della fatica manuale la scongiurerebbe. Bread labour, lavoro per il pane: una vecchia idea dell’economista gandhiano J.C. Kumarappa. Lo stesso che aveva un’idea su come arginare gli Usa.
10 aprile. Baghdad tour fra Apache, stracci bianchi, bus inceneriti e ali baba. E’ già l’una di mattina del 10 aprile e nessuno di noi riesce a dormire. Ho assistito allo scambio di doni fra il giovane Fadi domiciliato in questo hotel e un soldato: datteri e sigarette contro una razione, completa di “spaghetti che si scaldano da soli scuotendo il pacchetto, if you dont have a stove”. Certo, in Iraq scarseggia anche il gas da cucina, potrebbe essere utile questa razione. Mi chiedo se c’è anche il burro d’arachidi come nei pacchetti umanitari scagliati sulle teste afgane, misti alle bombe.
Qualcuno mi viene a dire: là sulla porta dell’hotel c’è un marine che ti vuole parlare. A me? E voglio io parlargli? Ma se mi risparmierei volentieri la conversazione, non posso mancare un’opportunità di conversione. Si chiama Antonio, è di famiglia messicana, dice di aver saputo che c’era una italiana nell’hotel e siccome sua moglie è di famiglia italiana, di Ravenna… Parliamo e sono due monologhi che si incrociano nonostante domande e risposte; alla fine ci si lascia come si è trovati. Mi domando cosa speravo.
Dopo qualche ora e una notte senza bombe, un risveglio tramortito. Ogni giorno verso le sette mi affacciavo sulla Abu Nuwas, ed era il mio modo di avere “notizie”: se non passava nemmeno un’auto o un bus significava “morsa d’assedio”, se c’era qualche movimento era “tensione allentata”. Oggi la Abu Nuwas che costeggia il Tigri non è più degli iracheni. Gli scorpioni mutanti vi sono allineati, e il resto della strada è interdetto dal filo spinato. Palestina; non ci sono mai stata, ma l’Iraq deve assomigliare a un’enorme Palestina.
Il caos è entrato nell’hotel, così tranquillo durante i bombardamenti, solida nave fra i marosi fino a due giorni fa. I giornalisti con giubbotto-elmetto arrivati al seguito degli americani chiedono a Mohamed: “Do you have a room?”. Si riempiono tutte le stanze, e per un attimo l’Iraq Peace Team pensa: ci sbatteranno fuori, sanno che non possiamo pagare più di dieci dollari a testa per stanza. Invece, no. Ci lasciano stare, ammassando i nuovi arrivati anche in tre per stanza a 50 dollari a testa. Adesso l’abbiamo capito, la dirigenza dell’hotel è contenta del cambiamento e forse non ha mai approvato la nostra permanenza pacifista; eppure il dovere dell’ospitalità non flette. Per consolarmi e distrarmi faccio colazione, compresa nei dieci dollari (per gli embedded costa un dollaro): pane e debes e bevo uno dei tanti the dolci e troppo scuri che hanno finito per macchiare i denti miei e degli iracheni; la bevanda è infatti così potente che si possono tingere ecologicamente le stoffe! Dalla vetrata entra una scena prepotente: sulla Abu Nuwas i marines hanno buttato a terra un uomo. Accorriamo, e penso all’insistenza di Robert il canadese giorni fa quando diceva: “Dobbiamo rimanere a monitorare i crimini di guerra dell’occupazione”, e io non ero così d’accordo, pensavo: se c’è l’occupazione e nessuna resistenza, ce ne possiamo andare. L’uomo è stato messo faccia a terra sul cemento che gliela schiaccia, e un soldato gli tiene il ginocchio sul collo. L’uomo è cencioso, pronuncia parole sconnesse, poi ci guarda e dice in inglese che la sua famiglia è morta di bombe e lui deve andare a parlare con non so chi. Ordiniamo al militare di togliere il ginocchio, diciamo “è una vergogna, questo è l’Iraq e quest’uomo è un iracheno, è a casa sua, lui”; per ragioni di immagine lui esegue. Controllano che il poveretto non sia una bomba umana e lo lasciano andare. Gli portiamo fuori la colazione, più per dare a intendere ai militari americani che non siamo dalla loro parte ma dalla sua, che li consideriamo invasori (la povera indignazione dell’occupato impotente). Non mangia, beve solo un po’ di the, rifugio di tutte le pene irachene.
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