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2003Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Temi
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guerraNé Bush né Saddam, è lo slogan che meglio rappresenta lo stato d’animo della popolazione irachena all’indomani dell’occupazione americana, nell’aprile del 2003, e della cacciata del dittatore. Marinella Correggia, giornalista-pacifista italiana, racconta giorno per giorno quelle pagine di storia, in presa diretta, dai luoghi chiave della Baghdad appena occupata.
13 aprile. “Né Bush né Saddam” Nina arriva con la notizia: “C’è un assembramento davanti ai reticolati del Palestine. Anche ieri c’era qualcuno, ma oggi di più”. Trepidazione: magari inneggiano al vincitore o chiedono favori. I manifestanti sono tutti uomini e gridano slogan. “Né Bush né Saddam”. E anche: “Bush down, Bush down”. E: “Libertà per l’Iraq”. “Né sciiti né sunniti, siamo tutti iracheni”. Tutto sommato, slogan di resistenza solidale, anche se, lo so, lo sfondo rimane religioso. Per un po’, suscitando curiosità, apro il mio pezzo di carta con la scritta “stop occupation”. Dispiego, e spiego: lah ehtilal. Annuiscono soddisfatti. Sono gruppi di sciiti, mi spiegano. Ah, ma non erano gli sciiti, insieme ai curdi, la grande speranza degli americani? Gli imam devono avere invece altre speranze: organizzare una sorta di governo parallelo, che organizzi la gente nel vacuum in cui vive ora e si consolidi per il futuro. Abbiamo visto l’ospedale nel quartiere sciita, difeso dai volontari, e non è l’unico. Non solo: gli autogestiti che regolano il traffico — certo per ora scarso – in assenza di semafori e di vigili, e nella complicazione dei carri armati, sono probabilmente organizzati dalle moschee. Gli sciiti peraltro si preparano all’arbayoun, festa religiosa per commemorare la morte di Hussein, con pellegrinaggio a Kerbala e riti di autoflagellazione, vietati sotto Saddam.
Ma non sono solo gli sciiti ad autorganizzarsi. Mentre continua la loro protesta, il professor Khaled mi invita a partecipare a un’assemblea al club un tempo esclusivo vicino all’hotel Palestine. Ci sono gruppi di ingegneri, e impiegati pubblici, e perfino militari. Si sono cercati uno per uno, indirizzo per indirizzo. Discutono, in piedi sui tavoli. Khaled dice che cercano di riorganizzare i servizi minimi in modo autonomo, al di fuori della regìa americana. Non sono sicura che sia così, ma cerco di crederci: un governo parallelo della città intende nascere, fatto tutto da volontari.
C’è un confine concitato, fra la città di Baghdad e il triangolo maledetto di questi tre hotel, i due della stampa e il nostro, “dei pacifisti e delle Ong”, poi anch’esso promosso a media center. Arrivano persone che cercano parenti spariti da anni o decenni, è la tragedia dei prigionieri politici, i cui familiari stanno trovando un luogo di aggregazione e un metodo di ricerca. C’è chi ha smarrito un congiunto pochi giorni prima, nel caos che ha preceduto l’occupazione: “Mio cugino Athir Salman cercava di venire a Doura, è partito da Saidia, non abbiamo notizie da 7 giorni”. Purtroppo proprio in quei quartieri sono state numerose le vittime civili, assassinate per strada dalla macchina da guerra statunitense che avanzava.
È facile farsi degli amici per la vita a Baghdad. Basta far da tramite fra qualcuno dei postulanti e un satellitare. Il primo della serie è Salam, che significa pace (un altro piccolo Salam, l’abbiamo incontrato alla chiesta presbiteriana — è un nome interreligioso! – nato da due giorni mentre infuriavano le bombe). Salam adulto e musulmano ha dato a me e Simona un lungo passaggio per strada, lo credevamo un tassista e un po’ lo è, ma quando ha saputo che “siamo state qui sotto le bombe” non ha voluto sentir parlare di soldi. In cambio, con il satellitare del Ponte Salam chiama Liliana e la rassicura sullo stato della famiglia e della casa; poi ci dice: “Chiedetemi tutto quello che volete adesso, tutto quello che posso fare per voi lo farò”. Ecco, intanto darà ospitalità a casa della sorella a Un-Ha, la ragazza coreana dell’ex Iraq Peace team che intende rimanere qui a lungo.
Arrivano a frotte gli organismi non governativi addetti alle emergenze. Sono sicura che molti, anche di quelli che non sono mai interventi in Iraq, hanno buone intenzioni. Ma non posso liberarmi da un pensiero ricorrente: le emergenze sono come trovare “Dio nell’orto” per molte persone.
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