Paesi di emigrazione
KenyaData di partenza
1979Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Mariuccia è testimone, purtroppo passiva, di un triste episodio che avviene nel piccolo paese del Kenya in cui sta prestando servizio all’interno di una missione religiosa, e ne riferisce ai familiari in una lettera a casa.
Alla mia famiglia
Nguviu, 20 ottobre 1979
Ciao carissimi, sono stata felice di aver sentito la vostra voce. Mi sa tanto che, quando mi accorgerò che la mia vena “scribacchina” si seccherà, approfitterò sempre più di questo mezzo di comunicazione che è il telefono.
E’ bello il nostro! Giri una manovella e a cinquecento metri da casa, dove c’è il mercato di Kibugu, ci risponde l’operatrice, che passa la comunicazione a Embu, che si mette in contatto con Nairobi, che da là chiama Roma e, alla fine, c’è chi fa squillare il vostro telefono di Prosecco. E viceversa. Da noi, quando qualcuno chiama uno dei 21 numeri telefonici della zona, tutti sentono che arriva una telefonata, ognuno ha un segnale particolare di riconoscimento, tipo l’alfabeto morse: 2 squilli lunghi e 1 breve, lungo – pausa – breve … e così via. In realtà, alzando la cornetta, si possono sentire tutti i discorsi fatti; è il massimo della “privacy” (=riservatezza) per noi che siamo gli unici a parlare in italiano per gli altri meno. E per le strade della “Ngandori Location” proprio grazie al telefono e ai suoi pali e fili, è arrivato il primo segno della cosiddetta civiltà, prima della luce elettrica, dei semafori, del traffico dell’acqua potabile ecc…
Voglio raccontarvi un fatto che è accaduto ieri sera in missione.
Avevamo appena chiuso il generatore, i reverendi si erario ritirati nella loro casa di “mabati” (= lamiera ondulata) di fronte alla nostra, la missione era piombata nel buio più totale ed il nostro “watchman” (=guardiano notturno) aveva iniziato il suo giro quando lo sentimmo bussare alla nostra porta. Maria ed io andammo ad aprire e vedemmo una mamma con una bambina di 7 o 8 anni sulla schiena; ci parlava in fretta, non riuscivamo a capire il senso delle sue frasi ma, visto l’atteggiamento di abbandono del capo della bambina, Maria capì subito la gravità della situazione e mandò a chiamare dal guardiano qualcuno dei padri che ci facesse da interprete. Aperto in fretta il dispensario, Maria tolse dalle due “cuka” (=teli) quel piccolo corpo che si “lasciò prendere” facendo ricadere sul lettino gambe, braccia e capo, come una morbida marionetta di cui si erano persi i tiranti o rotti i fili. Non c’era più segno di vita. Era morta e mi accorsi che c’era anche su di lei, su quella faccina nera nera, aggraziata, il pallore della morte. Piero parlò a lungo con quella mamma, nel suo kiembu che sentivo pieno di parole buone, con l’espressione serena, solita, aperta, da avergli meritato il nome di “Njeru” (=il buono) presso la gente, esprimendo la sua sofferente partecipazione. La donna si rimise la bambina in schiena, e strideva il colore dei grandi fiori stampati sulla “cuka” con la testa di ricciolini neri e corti che ondeggiava nell’adagiarsi sulla sua schiena, così come il forte fascio di luce della torcia col buio profondo della notte. Disse poche parole: “Mwathani ni mwega” (= Dio sa. Dio è buono) e ci salutò con quell’abituale saluto “Tigwoi na wega” (= Rimanete nella pace). La nostra risposta “Thii na wega” (= Va in pace) mi è rimasta dentro e mi è risuonata per l’intera notte. Va in pace. Va in pace, con quella figlia morta portata sulle tue spalle! Come suonava strana quella loro lingua! Non c’erano lacrime negli occhi di quella mamma, non gesti di disperazione, non parole rabbiose mentre saliva sulla Land Rover che don Piero aveva preso per riaccompagnala a casa. Da che cosa dipendeva quel suo modo di fare? Fatalismo? Rassegnazione ancestrale perché i “morti-bambini” sono normalità? Senti-menti inibiti per difendersi dalla sofferenza? O era questa la beatitudine dei “poveri in spirito”, perché l’essenza religiosa della vita porta questa gente ad accettare dalle mani provvide di “Ngai”, il loro dio, ogni avvenimento della vita, compresa la morte? Quali interrogativi per la mia fede ha posto questo incontro! Non ho dormito niente, e mi sento tutta rotta dentro. Come è distante, debole, incerta la mia fede. Se l’essere “poveri in spirito” assomiglia a questo abbandono in Dio, senza recriminazioni, contestazioni, ribellioni ad una volontà suprema che “sa”, credo ci vorrà proprio un supplemento della Sua bontà per far breccia nel mio spirito. Ho, dentro di me, un argomento su cui riflettere e confrontarmi per il re sto dei miei giorni. “Beati voi che non vi ponete questi problemi di fede!”. E’ questo l’inizio delle “beatitudini” secondo Mariuccia. Un abbraccio a ciascuno di voi. Continuate a star bene e a volervi bene.
Mariuccia
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La risposta
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