Mestieri
hostess di voloLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
Stato di PalestinaData di partenza
2000Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Temi
paesaggioTemi
paesaggioRoberta Mugnai, crocerossina italiana in servizio in Cisgiordania, si immerge negli odori, nei colori e nei personaggi del Suq di Hebron.
La prima volta che entrai nel Suq fu con un carabiniere, non ricordo il suo nome, ricordo solo che mi disse: «dai Roberta, tanto prima o poi ci dovrai entrare, lo sai che dobbiamo osservare anche il Suq». Entrammo, era Agosto, l’odore acre della carne macellata, la puzza di marcio, le mosche e il caldo mi dettero subito alla testa. Mi feci coraggio e respirai profondamente, non volevo far vedere che stavo per sentirmi male. Schieramenti di bancarelle e piccoli negozi stracolmi di frutta e verdura esposta anche per terra, pane profumatissimmo a forma di ciambella, guarnito di semi e allettante tanto che ne comprai spesso. Poi le spezie come il chili, il peperoncino, il curry, lo zenzero, varie radici, erbe essiccate, aglio, cipolle e venditori di strane frittelle di farina cotte al momento su piastre bollenti che non assaggiai mai, ma che dovevano essere buone. In-fine, arabi che strillavano indaffarati a vendere o comprare, ragazzini che con un vassoio rotondo di ottone, munito di un manico, portavano bicchierini di caffè nero pieni fino all’orlo senza versarlo, qualche donna velata di nero e inguantata con la borsa della spesa. Questo era il Suq di Al Khalil. Ci inoltrammo all’interno, tutto era come se fosse rimasto fermo nel tempo. Minuscole botteghe buie dove generi di prima necessità stavano ammucchiati in sacchi di juta o grandi ceste, macellerie che esponevano pezzi di carne sulla strada appesi a uncini e nugoli di mosche che andavano a depositarsi su di essa, molte cose erano buttate sul marciapiede insieme ai rifiuti. Oltrepassammo il Chiken Gate mettendo un fazzoletto davanti alla bocca per non respirare quello odore di pollaio e raggiungemmo la parte posteriore del settlement di Beit Romano. Dovevamo controllare se la nuova costruzione del settlement stava andando avanti nonostante la Legge Internazionale prevedesse il divieto di costruire nei Territori Occupati nel 1967. Infatti, notammo un paio di operai che, lentamente, stavano lavorando nel cantiere. Tornammo indietro per lo stesso percorso e camminando in mezzo al vicolo, ad un certo punto, inciampai in qualcosa: era una testa nera di mucca, butta per terra in mezzo al vicolo, in vendita. Dopo quella volta tornai nel Suq svariate volte senza più provare fastidio. Spesso, entravamo dall’ingresso di Beit Romano, là dove termina la via Nuova Al Shallalah e dove parcheggiavamo la macchina. Ci munivamo di radio portatili (anche se talvolta nel Suq non funzionavano), la macchina fotografica, la videocamera e ci incamminavamo lungo una passeggiata di piccole botteghe che occupano la via principale del Suq, mentre gran parte delle viuzze laterali non sono altro che vicoli stretti, bui e tortosi labirinti dalle arcate a volta delle costruzioni mamelucche. Mi sembrava che dieci, cento occhi ci scrutassero da dietro le grate delle finestre. C’era molto movimento, qualche negoziante ci salutava e noi rispondevamo.
Alla piazzetta di Kassazin c’era una buia caffetteria, il Badram Café dove, tra una nebbiolina di fumo, gli arabi si radunavano attorno ai tavoli intenti a bere, fumare, giocare a scacchi e parlare.
Il viaggio
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