Mestieri
operaioLivello di scolarizzazione
licenza elementarePeriodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)Dall’Africa all’India, per Stefano Carocci e i suoi commilitoni, soldati italiani prigionieri degli inglesi durante la Seconda guerra mondiale, comincia una vita fatta di monotonia e stenti in un campo di detenzione nei pressi di Calcutta. Unica consolazione, la possibilità di inviare finalmente lettere a casa. Ma le parole, in casi simili, vanno dosate con attenzione.
Appena scesi ci fecero camminare in fila indiana, dopo pochi metri c’erano degi indiani, che ci consegnarono delle posate e un bicchiere smaltato con il manico, un po’ più avanti si poteva sciacquare il bicchiere che poi ci venne riempito di té, andando più avanti ancora ci consegnarono anche dei pasticcini. Dopo ci indirizzarono verso un treno che stava fermo per noi, salimmo e prendemmo posto negli scompartimenti, ogni scompartimento era adibito per sei persone. Una volta seduti potemmo finalmente bere il té e mangiare i pasticcini, e poiché il mio amico aveva anche sei panini ci “inzuppammo” nel té anche due panini a testa. Alle nostre spalle c’era un ragazzo che ci chiese un panino in cambio di un pacchetto di sigarette da 10, accettammo subito lo scambio, e cosi ci facemmo anche una fumata. Passarono parecchie ore prima che il treno partisse, era quasi notte quando cominciò a muoversi. Erano circa un paio d’ore che si camminava, cominciammo a prendere il posto assegnato per dormire, alcuni già si erano sdraiati. Sembrava che la giornata fosse finita, ma non fu cosi: arrivò un inglese nelle corsie chiedendo l’aiuto di due di noi per andare a prendere da mangiare. Dopo un pò si videro molti carrelli transitare lungo i vagoni, pieni di varie marmitte. Per ogni scompartimento lasciavano vari recipienti pieni di cose da mangiare, era veramente tanta, da non credere ai nostri occhi, primi piatti, secondi, contorni, pane in cassetta etc. Quella notte mangiammo tantissimo tanto da stare male. Ci sorprese inoltre non tanto la quantità quanto la qualità, sembrava che avessero cucinato degli italiani in modo professionale. Con molta probabilità si trattava di un treno militare con una cucina attrezzata per preparare e servire svariate centinaia di pasti caldi. Stavamo per addormentarci quando vedemmo ancora un inglese con due dei nostri che portavano un sacco sulle spalle e che distribuivano un pacchetto di sigarette da 10 a testa, con dei fiammiferi. Era quasi l’alba ed eravamo ancora svegli con un sorriso sulle labbra, fumando qualche sigaretta in più. Si parlava del più e del meno, dicemmo anche che gli inglesi erano stati di parola quando, sulla nave, ci dissero che una volta arrivati in India ci avrebbero dato molto più cibo.
Il viaggio in treno durò non meno di otto giorni. Con il mangiare ci trattarono sempre bene fino a quando arrivammo a destinazione. Anche la mattina ci facevano fare un’abbondante colazione quasi “all’inglese”. In tutte le stazioni il treno faceva una piccola sosta, si vedevano centinaia di indiani piccoli e grandi, donne e uomini, che allungavano le mani per avere qualcosa da mangiare. Noi gli buttavamo sempre qualcosa di quello che ci rimaneva, ma era niente in confronto alla quantità di persone, era una cosa veramente impressionante vedere tanta miseria, ci consolavamo della nostra. Il treno proseguì fino nel Bengala, e precisamente a Ramnagar nella zona di Calcutta, ad una temperatura di circa 50° gradi all’ombra, circondati da belve feroci, ovvero le famose tigri del Bengala. In seguito venimmo a sapere che gli indiani di notte, accendevano dei fuochi ad una certa distanza per tenere lontano le tigri e altri ani-mali. Ci portarono in quei campi improvvisati, spogli ed isolati, in tende da campo, in ogni tenda eravamo sei persone. In quel campo vi si trovavano già alcuni prigionieri della marina e grazie a loro, ci potemmo organizzare e sistemare nel migliore dei modi. La prima cosa che facemmo fu un bagno, dopo circa tre mesi, ed una disinfezione generale visto che portavamo addosso parecchi animaletti di varie specie. Ci fecero buttare tutti i nostri indumenti e ci diedero un cambio nuovo: una canottiera, una camicia da prigioniero con un marchio a forma di rombo, 11 x 11cm, di colore blu cucito dietro le spalle, un paio di pantaloncini, tutto di colore azzurrino, un paio di calzini, un casco, una bustina contenente una macchinetta per radersi la barba, sapone, un pennello, lamette e un paio di forbici. I nostri dottori ci fecero parecchie visite e ci rimisero un pò in forma, eravamo ridotti male, irriconoscibili, non si capiva se eravamo uomini o animali. Passò un pò di tempo e potemmo dire che eravamo ancora persone. Arrivò comunque il momento di rendersi conto che ci avevano incasellati sotto chiave e sistemati dentro le nostre prigioni, ci domandavamo per quanto tempo saremmo dovuti stare lì. La vita cominciava la mattina presto con un’adunata nel piazzale, sempre allo stesso orario, messi tutti in linea perfetta perché ci dovevano contare. Più volte ci trattenevano più del solito perché i conti non tornavano (non sapevano contare forse?!). Dopo l’adunata si poteva andare a prendere la prima colazione: una tazza di té e un panino, non si poteva chiamare colazione, tutta al più uno spuntino. Il mangiare era molto scarso, ma non era tutta colpa degli inglesi ma anche dei nostri cucinieri improvvisati che mangiavano troppo compresi i loro paesani ed amici. Era molto importante mangiare qualcosa di più, ma non era questo il motivo principale che ci faceva stare male, era il sentirsi rinchiusi dentro il campo di concentramento, circondati da sei file di filo spinato alto quattro metri e guardati a vista da sentinelle indiane armate, che non avrebbero esitato un attimo a sparare, senza sapere per quanto tempo saremmo rimasti la dentro. Questo pensiero era per noi ossessionante, i primi tempi furono veramente deprimenti, difficili da vivere, le giornate non passavano mai, si camminava continuamente intorno al campo, agitati al punto di diventare pazzi. Oltretutto faceva anche un caldo soffocante tanto che bisognava portare sempre il casco in testa fino a notte, altrimenti c’era il rischio di prendere l’insolazione, in seguito se ne verificarono parecchi casi tra quelli forse meno fortunati. Dopo parecchio tempo, non ricordo, una mattina ci comunicarono dopo la conta una bella notizia, era arrivata, l’ora di poter scrivere alle nostre famiglie. Fu una grande notizia, l’aspettavamo da tanto tempo e finalmente dopo circa tre mesi (ripeto spesso la parola circa, ma sono passati parecchi anni e non ricordo tanto bene le date) potemmo comunicare ai nostri cari che eravamo vivi e dove ci trovavamo: in India, nel Bengala, nel distretto di Calcutta e precisamente a Ramnagar. Mi limitai molto nel descrivere le mie condizioni di vita e di morale, come si viveva dentro quei campi, avrei dato solo un dispiacere e avrei fatto solo star male inutilmente anche loro. Raccontai cose non belle ma neanche bruttissime o troppo realistiche. Passò parecchio tempo prima di ricevere una lettera da loro, poi lentamente cominciò ad arrivare la posta. Quando arrivò anche a me la prima lettera dai miei cari fu una cosa immensamente meravigliosa e consolatoria soprattutto. Fu come un balsamo che mi rianimò, mi diede la forza di andare avanti con rassegnazione e sopportare la brutta sorte di essere prigioniero. Rileggevo la lettera parecchie volte e scrivevo spesso, ma prima che noi ricevessimo ancora un’altra lettera passava parecchio tempo. I miei mi dicevano di stare calmo, che la guerra sarebbe finita molto presto, forse lo dicevano per consolarmi, ma purtroppo non fu così. La guerra continuò parecchi anni e noi dovemmo fare sei lunghi anni di prigionia in diverse terre straniere.
Il viaggio
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