Il disprezzo

Mi scontrai con un tale la cui famiglia d’origine fu tra le prime ad essere sbarcate in Australia. Voglio sottolineare: ad essere sbarcate perché quelle persone non erano giunte volendolo, almeno per la quasi totalità, piuttosto, erano state deportate dal vecchio Continente dove avevano contratto pesanti condanne penali e civili. Questo personaggio possedeva un grande pappagallo Kakatoa che parlava con la stessa cadenza del padrone di casa. Soggetto classicamente Australiano che intendeva replicare gli Inglesi confondendoli con i coloni Americani ed avrebbe potuto influire nell’assunzione prevista come Aiuto di Laboratorio presso l’Università di Brisbane con interessanti prospettive per l’avvenire. Il lavoro me lo ero trovato dopo avere passato all’esame molti negozi di radio, TV ed elettronica. Ebbi la conferma che nessuno si serviva di collaboratori per la assistenza e le riparazioni e tutti si affidavano ai laboratori delle Assicurazioni che detenevano l’esclusiva dei contratti. In quei laboratori non stop si lavorava come nelle catene di montaggio di charlottiana memoria. Feci due prove e mi bastarono. Mi allettava quel lavoro presso l’Università, più consono alle mie aspettative, perciò mi ero rivolto a quell’uomo. Gli dissi che ero disponibile per un periodo di tirocinio a retribuzione ridotta fintanto che non avessi appreso sufficientemente bene l’Inglese. Avevo intenzioni molto serie. Chiesi a Walter di assistere al colloquio per aiutarmi nel dialogo, ma non fu necessario. Quel tale, che doveva essere un rinomato Funzionario, mi interrogò sulle mie prime impressioni sul Paese, sulle città e sulle persone. Gli risposi con sincerità rammaricandomi della totale assenza di elementi prospettici ed edifici testimoni della cultura secolare dell’Italia che affondava le radici nelle origini della Civiltà universale.

Aggiunsi che non potevo pretendere di trovare in un Continente di recente scoperta quello che avevo perduto dell’antica Europa. Quell’eccellenza cominciò il suo discorso con l’esaltazione dell’Australia e lo proseguì affermando che gli Italiani erano figli di putt…, sanguinari e bastardi. Concluse dichiarando che non era vero che l’Italia era un Paese civile se tollerava il cannibalismo nel Sud. A prescindere dal cannibalismo che potrebbe essere interpretato come riferimento all’agire della mafia fortemente delinquenziale, per il resto, era stato molto chiaro; al punto che mi lasciò un momento senza parole. Con molta calma, rifiutai una tazza di tè e gli chiesi da quanti anni la sua famiglia si trovava in Australia. Un secolo e mezzo, mi rispose. Cioè a dire l’epoca dei trasferimenti coatti. Gli feci presente che, a differenza del Continente australe, dove il cannibalismo non era stato ancora completamente debellato, come si poteva constatare nella Nuova Guinea, il fenomeno del cannibalismo era noto in Italia soltanto perché riportato dai giornali e dai testi. In secondo luogo, gli dissi, loro discendevano da quella feccia di galeotti e morti di fame che erano stati costretti a popolare le Colonie del Regno, barattando la condanna con l’esilio in Australia. Si doveva compatirli però perché molta parte della loro vita era stata particolarmente agra ed ingrata. Le persone non sapevano quali fossero le loro origini e, spesso, i loro genitori. Molti preferivano sorvolare sul mestiere esercitato dalle loro madri, costrette a crescere i figli senza un padre. Se la progenie Australiana di cotanta nobiltà pensava di poter imprecare ed offendere il Popolo Italiano, si doveva ben guardare dal farlo in mia presenza od a raggio d’udito. C’era nel confronto degli Italiani un disprezzo discriminante che mi infastidiva.