Mestieri
cooperanteLivello di scolarizzazione
Paesi di emigrazione
GuatemalaData di partenza
1988Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)L’arrivo a Città del Guatemala: è il 1988 quando un giovanissimo Marco Cabiati atterra nella capitale di uno degli Stati più poveri dell’America centrale. Il paesaggio urbano, le baracche colorate, i bambini che gli corrono incontro curiosi. Ma anche la percezione di un odio nemmeno troppo strisciante nei confronti dei “gringos”.
Quando l’auto ebbe compiuto il giro completo della rotonda, unendosi al piccolo corteo che avevamo formato all’uscita dell’aeroporto, ci si presentò davanti un’interminabile serie di murales, eseguiti dai bambini delle scuole elementari. I disegni erano semplici, ingenui, anche se, e lo avremmo scoperto dopo, erano soltanto un preludio al disordinato e caotico panorama di Città del Guatemala. Tutto scorreva attorno e quasi non avvertii la differenza tra i confusi disegni dei bambini e i colori del traffico cittadino, che si riversava come un fiume tra le costruzioni del centro, in stile nordamericano; tra le basse case della prima periferia, poi tra le baracche e ancora tra le colonie. Ma qui non era più traffico automobilistico: soltanto pedoni, biciclette e carretti e, ogni tanto, qualche bus. Tutta questa confusione, questo disperato agitarsi di persone, in mille direzioni diverse, in altrettanti modi diversi, era il risultato della somma di tutte le azioni che ogni singolo o, se si può dire, ogni gruppo di singoli, compiva. Così le improvvise svolte degli scassatissimi autobus, i sorpassi azzardati, le corse dei pedoni, gli stradini che improvvisano un cantiere attorno ad una buca, senza cartelli, senza avviso, come se fossero persone qualunque a cui da sempre hanno dato una pala e un secchio di catrame e detto: “Tieni; vai e tappa tutti i buchi che trovi: noi ti paghiamo”. Allo stesso modo i ragazzini ti offrono biglietti della lotteria, fiori, ecc. Allo stesso modo il poliziotto in borghese strattona e minaccia il solito sbandato, magari solo perchè ha avuto la malaugurata idea di addormentarsi sulle aiuole del corso, davanti all’ambasciata nordamericana. E’ evidente che ciò causi un certo caos, forse tipico di ogni città. Ma quando si è fuori dalla propria città e ci si trova catapultati in un nuovo mondo, queste cose non sono più scontate, hanno una consistenza diversa, incidono più profondamente nella nostra sensibilità. La macchina continua, passa di fronte alla caserme, di fronte alle università e ancora attraversa le case, che perdono sempre più lo stile pacchiano nordamericano e diventano sempre più multicolori, sempre più povere… sempre più baracche. Ora officine ricavate con lamiere ondulate, ora negozi di alimentari, bar, parrucchieri; tutti i colori, tutti i volti si confondono, sembrano risuonare negli occhi e il caos aumenta. I particolari si confondono come in un sogno agitato: i torsoli dei caschi di banane accatastati; le reti per la frutta, i cappelli; i sorrisi e tutte le altre espressioni della gente; le capre ammucchiate tra la strada e le baracche; alcuni bambini fanno scendere le biglie di vetro lungo il sifone di un water in ceramica troneggiante su un tavolo in una specie di lotteria di cui mi sfugge il funzionamento. Tutto era lì, fuori dalla vettura, come i murales dei bambini: gli stessi colori, la stessa confusione. Usciamo per un istante da tutto questo, la strada si solleva sulla città, che ora ci appare in tutta la sua estensione; lì vivono circa due milioni e mezzo di persone: è come un grande lago di case, attorno i monti e sopra il grigio della nuvole, poco più scuro del grigio delle case, sotto: Città del Guatemala. La strada si allarga, come una circonvallazione o come un’autostrada, sorvola coi suoi viadotti le strette gole e le colline ricoperte da una ricca e sorprendente vegetazione; qua e là piccoli assembramenti di baracche, come lingue di magma che debordano dal vulcano e si stendono sui fianchi delle colline, nelle profonde gole aperte dai frequenti terremoti. Passiamo un colle e ci si stende davanti lo stesso paesaggio che abbiamo abbandonato; sembra non esserci scampo. Baracche, baracche e ancora poveri, stampelle, bambini dallo sguardo attonito, biciclette, macchine rappezzate in qualche modo; non più asfalto e cemento ma sterrati e lamiere, case basse, rottami. Tutto a perdita d’occhio, tutto schiacciato sulle colline fuori della grande città; tutto bidimensionale, come i Murales dei bambini.
Mi trovo sulla terrazza di una chiesa, gli altri sono dentro. Parlano. Giù nella strada, tra la chiesa e la scuola, è pieno di bambini. Tre giocano a nascondino. Li osservo con lo stesso sguardo con cui loro osservano me. E’ strano, non riesco a capire quello che gli occhi dicono, ma percepisco chiaramente come questi bambini, e anche gli adulti, siano distanti, estranei al mondo di cui fino a ieri facevo parte. Ciò nonostante lo sguardo trapassa e, in un certo senso, riempie questa distanza, riuscendo a trasmettere qualcosa di profondamente umano. Quando ciò avviene è pressocchè inevitabile cercare di instaurare un contatto, un rapporto che riesca ad andare oltre il sorriso o la strizzatina d’occhio. I bambini, più di tutti, capiscono queste cose, le sentono molto più naturalmente e agiscono di conseguenza. Pian piano abbandonano il loro gioco, di cui ero diventato complice osservatore, e si riuniscono intorno a me. Sono emozionati, né più né meno di me, timidamente si fanno avanti. Sento di essere osservato in modo impeccabile in tutti i miei particolari, da capo a piedi e viceversa; capisco che cosa deve aver provato il primo europeo sbarcato su questa terra; nei loro sguardi si intuisce una certa ammirazione, mista ad una sorta di invidia maliziosa. Quest’ultima si insinua più profondamente nella nostra coscienza, risvegliando sensi di colpa e rimorsi sicuramente sconosciuti ai primi scopritori. Si riesce ad aprire uno spiraglio nel silenzio dei nostri sguardi incrociati; con un po’ di difficoltà riesco a rispondere alle solite domande di rito (come ti chiami? da dove vieni?…). Quando non riusciamo a capirci, e capita spesso, non ci resta che abbozzare un sorriso o una risatina e far- finta di nulla. Questo mi fa riflettere un po’. Il dialogo continua e si sposta lentamente, vacillando come un bambino ai primi passi, per- arrivare ad un punto, ad una questione di una certa importanza: “L’Italia è vicina agli Stati Uniti?”. La domanda è semplice, potrebbe sembrare banale; invece racchiude un’infinità di significati, dalle numerose implicazioni storico-politiche e soltanto una parola può essere sintesi di tutta questa serie di significati: gringo. Il gringo é l’americano, l’uomo della Coca Cola, l’uomo Delmonte per intenderci, il ricco colonizzatore dal naso di porco e dalle mani flaccide e inanellate. “No”, per fortuna non sono gringo e l’Italia è lontana dagli USA… lontana, sono poi soltanto una dozzina di ore di volo. Tanto quanto basta a far sì che noi non siamo “gringos” del tutto, ma siamo diversi. I tre bambini attorno a me lo capiscono quando, su loro richiesta, insegno loro tre o quattro parole in italiano. Avvertono la somiglianza con lo spagnolo? Non lo so, spero di sì, comunque è un tentativo, un esperimento, è la prima volta che parlo con i guatemaltechi; è un tentativo di porre un ordine, di fissare tutto quello che vorticosamente ruota attorno a me; è come attaccarmi alla roccia per sentirmi parte della montagna che mi sovrasta.
Il viaggio
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Paesi di emigrazione
GuatemalaData di partenza
1988Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Gli altri racconti di Marco Cabiati
I bambini del Guatemala
Come è triste un mondo senza bambini. Come è triste il nostro mondo cori pochi bambini....
Il Pacifico
Scendere sulla costa sud, toccare il Pacifico, l'altro grande oceano, passando attraverso l'America, la lunga costa...