Paesi di emigrazione
IndiaData di partenza
1970Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)La grande avventura di Roberta e dei suoi compagni di viaggio è iniziata. Sono partiti in auto da Londra, hanno attraversato l’Europa fino alla fine dei Balcani. Passati per la Turchia, sono ora in Iran. Dopo il soggiorno a Teheran l’auto sulla quale viaggiano si ferma per un guasto. Ma i ragazzi non si perdono d’animo e l’incidente di percorso si rivela un’occasione per fare nuove scoperte e nuove conoscenze.
L’Iran dello Shah Reza Pahlavi, l’antica Persia, era lì ad attenderci per essere esplorata. La strada che ci doveva condurre a Teheran, la capitale, era gradevole e molto agevole; la temperatura decisamente più mite. Avevamo lasciato l’inverno e il freddo alle nostre spalle.
Felici e fiduciosi, partimmo accompagnati dal suono dei Santana Abraxas. Il ritmo ci infondeva una gran carica di energia e la chitarra di Carlos Santana gioia e un gran desiderio di scoprire questo nuovo paese. Il paesaggio si presentava piatto e desertico, ma, poi, la strada riprese a salire e nuove vette cominciavano a comparire in lontananza.
Eravamo diretti a Tabriz, la quarta città più grande dopo Teheran. Avevamo una gran voglia di arrivare nella capitale nel più breve tempo possibile. Le poche automobili che incrociavamo erano in ottimo stato. Che contrasto con la Turchia!
Eravamo rientrati nel xx° secolo! In un attimo dimenticammo i disagi che ci avevano accompagnati durante tutto il tragitto, attraverso le desolate e fredde montagne dell’Anatolia.
I poliziotti iraniani, a bordo di nuove e fiammanti automobili, indossavano uniformi curate e attraverso le scure lenti degli occhiali Ray Ban, ci osservavano con apparente indifferenza. Avevamo la sensazione di essere sorvegliati e ciò ci faceva sentire vagamente a disagio. Giunti a Tabriz, ci concedemmo in un vero ristorante un vero pasto a base di un ottimo e profumato riso pilaf, accompagnato da dei gustosi spiedini di pollo. Sazi e rincuorati, riprendemmo la strada, senza nemmeno visitare la città.
All’imbrunire arrivammo a Teheran, che ci apparve una grande città moderna dalle strade ampie e ben curate. La statua con l’immagine dello Shah troneggiava al centro di ogni piazza, una presenza costante ed eccessiva. Trovammo alloggio in un vero hotel con lenzuola pulite e acqua calda con cui poterci finalmente lavare. Che piacere sentire il getto dell’acqua tiepida scorrere sulla pelle ricoperta di lividi che mi ero procurata per le forsennate grattate notturne! Mi sentii alla fine liberata da quelle schifose bestiacce.
Finalmente ripuliti, uscimmo in strada.
Le donne, vestite all’occidentale, passeggiavano chiacchierando tra di loro e ridendo spensierate come in una qualsiasi città europea. Erano molto belle: di pelle chiara su dei profili perfetti, mi evocavano le immagini classiche viste sui libri di storia, il volto illuminato da bellissimi occhi scuri e incorniciato dai lunghi capelli neri. I negozi del centro erano ben forniti: le vetrine pullulavano di abiti occidentali dai tagli fashion. Era l’epoca delle minigonne dai colori sgargianti, Mary Quant era giunta anche qui. Chi avrebbe mai immaginato che solo dopo pochi anni, con l’avvento al potere di Khomeini, tutto questo sarebbe scomparso?
L’hotel dove trovammo alloggio era situato sulle colline e godeva di una vista incantevole sulla città. Decidemmo di fermarci qualche giorno in più per poter riposare e visitare Teheran, anche se il buon senso ci suggeriva di continuare, per timore che, con l’avvicinarsi della stagione delle piogge, sarebbe stato troppo caldo soggiornare a Goa. Dopo varie discussioni e tentennamenti sul percorso da intraprendere, lasciammo a malincuore la città, senza averle dedicato del tempo per approfondirne la conoscenza, e optammo per la via più breve: il deserto. Purtroppo, non avevamo un’auto adeguata e ci rendemmo subito conto che era stata una scelta alquanto azzardata.
Con rammarico dovemmo rinunciare e riprendere la vecchia via delle montagne, che, anche se più lunga, era meno insidiosa e più adeguata al nostro mezzo di trasporto. Purtroppo, percorsi solo pochi kilometri, la nostra povera Opel cominciò di nuovo a sbuffare e ad emettere strani rumori, ma, peggio ancora, iniziò a perdere acqua, fino a quando, rantolando, si fermò del tutto. Scoraggiati, scendemmo a terra. Eravamo nel bel mezzo del nulla del deserto Iraniano.
Ci guardavamo con aria afflitta ed interrogativa. Sconsolati, ci chiedevamo: “ Adesso che facciamo? “Ad un tratto, come per incanto, vedemmo sfrecciare a tutta velocità una macchina rossa con a bordo due bellissimi ragazzi biondi, ovviamente europei.
Sembrava un miraggio.
Si fermarono di colpo, fissandoci increduli, e gentilmente ci chiesero se avevamo bisogno di aiuto.
Era il nostro giorno fortunato: uno dei due era meccanico nel suo paese, la Svezia. Giuseppe aprì prontamente il cofano per far controllare il motore. Dopo l’ispezione la prognosi fu decisamente sconfortante: l’auto era kaputt, sentenziò il nostro svedese con aria da intenditore. Avevamo rotto il monoblocco, perciò l’unico aiuto che potevano offrirci era quello di trainarci al villaggio più vicino, dove avremmo dovuto abbandonare la vettura e proseguire con mezzi di fortuna.
Avviliti e con il morale a terra, ci rassegnammo a lasciare la nostra amata automobile e mogi, mogi, accettammo di essere trainati al paese più vicino. Fortuna che non era molto lontano! Ci lasciarono nell’unica officina meccanica. Ripartendo ci salutarono, augurandoci buona fortuna e lasciandosi alle loro spalle una bella scia di polvere.
Il proprietario non parlava ovviamente inglese. Un tizio che passava di lì per caso, venne interpellato: era un tipo sulla cinquantina, con una corta barba brizzolata, che nascondeva le cicatrici del vaiolo, che gli avevano butterato il volto. Si presentò come il mullah del villaggio.
Dopo aver confabulato con il meccanico, estrasse di tasca una grossa lente e con aria da intenditore, cominciò a esaminare il motore. Noi lo fissavamo increduli, non capendo se si volesse prendere gioco di noi o se realmente si sentisse un esperto in materia di motori.
Era una situazione paradossale e comica al tempo stesso.
Dopo aver esaminato attentamente il motore, rialzò gli occhi, e dopo aver scambiato alcune frasi con il meccanico, emise un verdetto positivo: sarebbe stato possibile riparare il guasto. Osservai le espressioni stupite dei miei amici. Io non ci capivo più nulla, guardavo ora l’uno ora l’altro con aria interrogativa. Non avevamo più niente da perdere se non quello di tentare l’impossibile. Non avevamo altra scelta; l’alternativa di proseguire con i mezzi pubblici non era per niente allettante. Per la riparazione ci sarebbero voluti parecchi giorni, ci spiegò il meccanico a gesti. La trattativa economica fu condotta da un altro tizio che passava di lì per caso. Faridoon era il medico condotto del villaggio e il suo inglese era decisamente migliore. Oltre che tradurre, ci offrì ospitalità a casa sua per tutto il tempo necessario alla riparazione. Non ci sembrava vero! Accettammo sollevati l’invito inaspettato. Seguimmo Faridoon nella sua casa appena fuori dal villaggio. L’abitazione era cinta da mura di argilla, in perfetta sintonia con i colori ocra del paesaggio circostante.
Vi si entrava attraversando un giardino ben tenuto, dove i boccioli di rosa emanavano una gradevole fragranza che si mescolava al pungente profumo dei gelsomini in fiore.
I verdi frutti dei melograni screziati di rosso mi riconducevano alle miniature dei giardini persiani. Varcata la porta principale, ci condusse in un’ampia stanza dal pavimento ricoperto da soffici tappeti persiani, sui quali poggiavano dei coloratissimi cuscini.
L’ambiente era luminoso e confortevole. Eravamo giunti in Oriente. Ci diede il benvenuto a casa sua e ci pregò di accomodarci. Potevamo dormire lì, ma, prima, dovevamo gustare una cena locale, che avrebbero preparato le donne di casa. Stupiti dalla generosità e imbarazzati, non sapevamo come comportarci; ci lanciavamo sguardi interrogativi e perplessi cercando i capire dove fosse il tranello: un emerito sconosciuto ci invitava in quella bellissima casa senza neanche conoscerci! Ma non avevamo preso in considerazione quanto sia leggendaria l’ospitalità degli Iraniani e di tutto il mondo orientale in genere.
Poi aggiunse: “Sentitevi a casa vostra” e uscì, perché aveva delle faccende urgenti da sbrigare, ma ci assicurò che sarebbe tornato per l’ora di cena.
Lo ringraziammo accomodandoci nel salotto della nuova inaspettata dimora.
Stanchi e avviliti com’eravamo dalle ultime vicende, il morale si risollevò. Eravamo felici per questo piacevole diversivo causato dall’imprevisto: un segno del destino. Il viaggio poteva terminare lì, invece la nostra buona stella non ci aveva abbandonato e aveva cambiato di nuovo le sorti della nostra avventura.
Un’ occasione così non sarebbe mai potuta accadere altrimenti.
Che ironia la vita! Ti serba sempre nuove sorprese, quando meno te lo aspetti, ma soprattutto quando tutto sembra perduto, ti offre la possibilità di scoprire nuove opportunità.
Maurizio e Giuseppe tirarono fuori le chitarre e iniziarono a suonare.
Un’ora più tardi, la porta si aprì e le donne entrarono reggendo dei grandi vassoi fumanti con Faridoon sorridente alle loro spalle.
Appoggiarono i vassoi sui bassi tavolini e ci invitarono a mangiare: un delizioso riso pilaf, cosparso di uva passa e pinoli, e carne di montone arrostito, leggermente speziata, squisita. Bevemmo tè al gelsomino e raccontammo le nostre disavventure ormai lontane al padrone di casa che, curioso, ci poneva mille domande sul percorso intrapreso. Incredulo e divertito dai nostri racconti ci introduceva in questo affascinante mondo a noi sconosciuto.
Ci rendemmo conto che era felice di poter condividere il suo tempo con degli Europei, occasione per lui assai rara.
Di nuovo le chitarre ripresero a suonare. Io e Loretta iniziammo a ballare.
Ci sentivamo a nostro agio tra quella gente. Il ritmo della musica coinvolgeva tutti trasmettendo gioia e allegria. Ballammo tutti insieme e cantammo fino a notte fonda.
Poi i nostri anfitrioni ci augurarono la buonanotte e uscirono.
La casa cadde in un piacevole silenzio. Noi crollammo sui cuscini, stanchi, ma felici, e piombammo in un sonno profondo. L’indomani venne a svegliarci Faridoon. Aveva un’aria mesta e spaventata. Disse, cercando di trattenere l’imbarazzo, che gli uomini dovevano recarsi al commissariato di polizia. Tutti noi lo scrutavamo con aria interrogativa, ma lui, silenzioso, non sapeva o forse non voleva rispondere.
I ragazzi partirono alla volta del distretto di polizia. Tornarono dopo circa un’ora con la bella notizia che dovevamo lasciare la casa e andare ad alloggiare in un albergo, un albergo consigliato dai poliziotti, che, naturalmente, non fornirono una motivazione plausibile. Lividi di rabbia, non riuscivamo a comprenderne la ragione: sembrava tutto così assurdo. Faridoon, imbarazzatissimo e con le lacrime agli occhi, ci salutò augurandoci buona fortuna. Fummo accompagnati in una piccola pensione: due stanze, una per i maschi e l’altra per noi donne, dove alloggiammo per i cinque giorni necessari alla riparazione. Era la Savak , la polizia segreta dello Shah, a scandire le nostre giornate. Ci seguivano ovunque. Controllati a vista percepimmo l’inasprimento del regime. In un attimo scomparve dai nostri cuori, il senso di libertà e civiltà respirato in precedenza. Avevamo noleggiato delle biciclette e perlustravamo la campagna annoiati e senza una meta precisa, con la netta sensazione di essere costantemente sorvegliati. Il giorno seguente, un ragazzino venne a chiamarci: dovevamo visionare il lavoro. Ci recammo all’officina meccanica. Il motore era stato smontato e giaceva su un tavolo: sembrava un pollo sgozzato, esordì Maurizio. Scoppiammo tutti a ridere per la metafora, sciogliendo un po’ la tensione. I pezzi del motore erano sparsi e abbandonati ovunque. Enrico e Giuseppe si fissarono negli occhi dubbiosi senza avere il coraggio di fare alcun commento. Il meccanico, notata la nostra perplessità, a gesti cercava di rassicuraci che tutto era sotto controllo, di non temere che ci avrebbe consegnato l’auto come nuova. Speranzosi, ma con ben poca fiducia, lasciammo l’officina in attesa del miracoloso risultato. Finalmente dopo qualche giorno l’auto era pronta. Come un artista, aveva posizionato una toppa di rame rivettata sul monoblocco: sembrava un rammendo di alta sartoria. Il meccanico ci guardò soddisfatto e compiaciuto della sua opera d’arte, cercando in tutti i modi di tranquillizzarci. Noi stupiti ammiravamo interdetti il capolavoro, consci che non avremmo fatto molta strada con quel rattoppo. Alquanto perplessi ci complimentammo con lui con la celata speranza di poter proseguire il viaggio. Dovevamo pagare la riparazione, la modica somma di cento dollari che, a quei tempi e per quell’economia, era una piccola fortuna, ma divisa tra noi cinque risultò una cifra modesta. Non avevamo tale somma in rial, la valuta locale, perciò dovevamo cambiare i nostri travellers cheques, ma la banca del villaggio non era in grado di compiere la transazione. La polizia ci consigliò di andare a Babol, una località di vacanza sul Mar Caspio, che non era lontana. Lì c’era un casinò, dove sicuramente avrebbero potuto operare il cambio, ma come arrivarci? Con l’autobus! Suggerirono i nostri angeli custodi. Partimmo alla volta di Babol su di un vecchio sgangherato autobus e giungemmo alla meta dopo un piacevole percorso attraverso una distesa di aranceti. Si percepiva tutto intorno il profumo intenso dei fiori di zagara.
Scendemmo dall’autobus pagando la corsa pochi rial. Il casinò era poco lontano: un grande, anonimo, grigio casermone in riva al mare. Entrammo. Pochi clienti, di nazionalità russa, erano intenti a giocare nelle sale semivuote: era ancora la stagione morta e pochi erano i turisti. Noi eravamo gli unici Europei presenti, ma con intenti completamente diversi. Riuscimmo a cambiare i nostri travellers cheques e con l’aiuto di un taxi rientrammo al villaggio, liberi finalmente di riprendere la strada.
Di buon’ora il mattino seguente ci mettemmo in marcia, titubanti, ma speranzosi di riuscire a partire.
Il motore si accese al primo colpo e noi salimmo a bordo trionfanti. Direzione Mashhad, situata nella provincia del Khorasan, città santa per gli shiiti musulmani, dove è sepolto il cugino e genero di Maometto, l’Iman Reza Alì, morto martire.
Eravamo di nuovo felici ed euforici. Anche questa volta ce l’avevamo fatta.
Il viaggio
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