Paesi di emigrazione
IndiaData di partenza
1970Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Dall’Iran all’Afghanistan, il viaggio prosegue lungo una rotta tanto esotica quanto “abituale” per i giovani hippies europei degli anni Settanta.
Arrivammo all’alba a Kabul. L’aria era gelida e frizzante, mentre la neve scendeva lenta, ma compatta, formando dei grossi fiocchi volteggianti che avvolgevano ogni cosa di una coltre bianca, leggera e ovattata.
Eravamo ripiombati nel pieno dell’inverno.
Io avevo sonnecchiato in macchina durante quasi tutto il viaggio, ma i ragazzi erano stanchi. Si erano dati il cambio alla guida per tutta la notte; anche se c’era poco traffico, bisognava stare molto attenti, soprattutto ai camion che, ostinati, si sentivano i padroni della strada e ci abbagliavano con i loro fari accecandoci. Kabul, agli inizi degli anni Settanta, era una ridente cittadina, situata in una piana percorsa dal fiume omonimo, un connubio tra medioevale e moderno. La folla era composta dai variopinti turbanti degli uomini, avvolti nei loro caldi chapan (una specie di cappotto, decorato con intricati ricami), di una gran varietà di colori che risaltavano vividi nel candore della neve, e dai fluttuanti burka delle donne, in stridente contrasto con i primi accenni di abiti di foggia occidentale. I giovani studenti dell’università francese indossavano jeans. Era l’università più prestigiosa di Kabul, dove anche le donne potevano accedere, indossando le prime timide minigonne. Parlavano francese, la lingua della società colta, ascoltavano musica occidentale. Si respirava un clima europeo.
Ci dirigemmo verso Shar e-Nau (la città nuova), popolata prevalentemente da stranieri e dalle classi più abbienti della società afghana; era il quartiere dove risiedevano le ambasciate di tutto il mondo. Fu costruito per volere del re Zahir Shah, per rendere più moderna la città. Le vetrine dei negozi, ben fornite, esponevano prodotti di largo consumo, provenienti dai paesi circostanti. Con nostra sorpresa, scoprimmo l’esistenza di un vino locale, che si chiamava castellino, prodotto con delle uve autoctone e venduto sotto forma di medicinale, per mascherarne l’identità di sostanza alcoolica proibita dal Corano. Lo zampino e la fantasia italiana aveva colto nel segno, anche in questo remoto angolo del mondo.
In Shar e Nau, prendemmo alloggio al Green Hotel.
Si entrava attraversando un piccolo giardino, ai cui lati facevano capolino spogli cespugli di rose carichi di neve. Pulito e confortevole, era anche molto accogliente per gli standard che avevamo conosciuto fino a quel momento. Ognuno di noi aveva il privilegio di una propria stanza, ma con un bagno in condivisione. Ci accomodammo, stanchi e infreddoliti, potendo finalmente assaporare il piacere di una doccia calda. Mi lanciai con gioia sotto il getto d’acqua bollente, che quasi mi scorticava la pelle, e, mentre mi abbandonavo al tepore, la mente vagava sognante, richiamata dai suoni che provenivano dalla strada. Kabul degli anni ‘70 era un crocevia di giovani di passaggio per la mistica India: italiani, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, americani e anche alcuni provenienti dai paesi dell’ America Latina. Nei coffee shop della città, le lingue e gli accenti si confondevano intrecciandosi tra di loro, tra il vociare e il profumo dell’hashish fumato liberamente e tollerato dal governo del re, anche se non del tutto legale. In quei locali pubblici, si ascoltava musica occidentale, dai Rolling Stones, ai Led Zeppelin, ai Santana, sdraiati su dei soffici tappeti e sprofondati tra morbidi cuscini, in un piacevole sognante abbandono. Tutti erano amici di tutti. Ci si scambiavano notizie ed esperienze di viaggio tra un chay e un chillum, per poi ripiombare nel silenzio e ripercorrere con i propri pensieri le infinite emozioni vissute, ognuno facendosi cullare dal proprio sogno.
Ci fu servito un pranzo delizioso, a base di riso pilau e kebab, un piatto unico in cui si fondono i profumi delle spezie, la carne di montone arrostita su degli spiedini, l’immancabile nan, il pane afghano cotto direttamente contro le pareti di argilla del forno bollente.
Ne adoravo il profumo che mi rimarrà impresso per il resto del viaggio, come ricordo di questo meraviglioso paese. Nel pomeriggio proseguimmo verso Chicken Street, la via delle botteghe: antiquari e gioiellieri esponevano dei meravigliosi monili turcomanni e gli immancabili tappeti afghani dagli intricati disegni geometrici, bellissimi pugnali dall’impugnatura d’argento e dai foderi tempestati di lapislazzuli, scatole sempre di lapislazzuli blu venati d’oro e intrecciati con motivi di filigrana d’argento, coperte di pelliccia di lupo, cinture in cuoio e gilet finemente decorati con preziosi ricami e risvolti di pelliccia.
Kabul mi aveva conquistata per il suo fascino pacato e rilassato. Era un crocevia d’incontri con i personaggi più strampalati, dai tossici consumati, agli hippies sognatori; si respirava un clima di grande libertà e tolleranza. Ma, ahimè, la strada ci chiamava. Dovevamo raggiungere la nostra meta finale: l’India. Il mattino seguente ci alzammo di buon’ ora per dirigerci verso il Khyber Pass, l’antica via che ci avrebbe condotti finalmente in India.
La strada si inerpicava lungo strette gole dai pendii vertiginosi, fra cui scorrevano precipitosi torrenti che mi toglievano il fiato solo a guardarli. L’aria era fresca e pungente. In lontananza ammiravo le vette delle alte montagne ricoperte di neve. Giungemmo al valico del passo Khyber nel tardo pomeriggio.
Ci apparve il forte di Landi Kotal che dominava il passo, testimone di tante insanguinate battaglie. Incontrammo i Pashtun o Pathan, uomini bellissimi, ribelli e temuti, dal portamento fiero e orgoglioso. Indossavano i loro costumi tradizionali: lo salwar Kamiz e i meravigliosi turbanti neri. In petto portavano bandoliere luccicanti di pallottole e a tracolla vecchi fucili inglesi Enfield. Gli occhi erano truccati di nero kajal, che donava loro un aspetto selvaggio e ammaliante. Come al solito li osservavo rapita. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quei personaggi così affascinanti; rimanevo incantata a fissarli come in trance.
Loro si muovevano con estrema disinvoltura, ricambiando il mio sguardo con apparente indifferenza. Sembravano uscire dalle pagine dei romanzi di Rudyard Kipling, che tanto avevano infiammato la mia fantasia e fatto sognare.
Il viaggio
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