Mestieri
cooperanteLivello di scolarizzazione
Paesi di emigrazione
BosniaData di partenza
1998Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Maurizio Furgada tira le somme dello straordinario lavoro svolto dalla sua associazione nei primi anni Duemila, non molto tempo dopo la fine della guerra, per favorire il dialogo e l’incontro tra bambini bosniaci di diverse etnie e religioni.
Difficile per me delineare un quadro complessivo che possa dare l’idea del lavoro svolto fino a questo punto. Questa storia inizia sei anni fa lungo il confine aperto dalla guerra tra serbi e musulmani nella Bosnia nord-occidentale. Oggi, dopo tanti sforzi e tentativi (in parte riusciti), mi ritrovo seduto in un bar di Petrovo (repubblica Srpska) a contemplare il risultato (o il non risultato) del nostro lavoro.
I corsi che avete finanziato sono terminati da pochi minuti. C’è nell’aria quel senso di tristezza che accompagna sempre ogni esperienza che sta per finire. Accanto a me siedono, in ordine rigorosamente separato, tutti i ragazzi protagonisti di questa vicenda.
L’apparente risultato è che i ragazzi di D.Orahovica siedono per la prima volta in un bar di là del confine. Tra di loro ci sono alcuni innocenti ai quali la guerra ha tolto tutto, persino i loro padri. L’apparente non risultato consiste nel fatto che tutti siedono spontaneamente a tavoli etnicamente separati in perfetto ordine: un tavolo serbo, l’altro musulmano. Consultano appassionatamente le fotografie del loro ultimo viaggio in Italia. Si mischiano per un attimo tra risa e prese in giro e intonano, in un momento di frenesia collettiva, l’inno di compleanno a Adis, oggi tredicenne. Poi si risiedono ordinatamente ai loro posti. I musulmani attorno a due tavoli, i serbi ad altri due.
Scambio queste mie sensazioni con l’interprete, sempre più coinvolta da questa vicenda; scandalizzata dal fatto evidente che qualcuno di loro è venuto sin qua, facendo finta di partecipare al corso, solo per avere i soldi delle spese di trasporto, naturalmente non sostenute.
Nella segreteria della scuola ho appena avuto qualche scambio polemico con i direttori: cose a cui sono abituato. Meglio parlare allora del viaggio della scorsa domenica. Abbiamo visitato un paesino musulmano (ora immerso in territorio serbo) dove vive un solo superstite. Un uomo anziano, solo tra le macerie di uno dei tanti villaggi annientati per sempre. Ci ha raccontato la sua storia che è quella di diecimila uomini mai più tornati alle loro famiglie. E qui in questa stanza ci sono alcuni dei loro figli!
Arriva verso di me uno degli studenti del corso e mi chiede quando andremo a visitare i luoghi dove ha perso la sua casa e dove è stato ucciso suo padre. Andremo la settimana prossima, lo rassicuro. Lui sorride, dicendo che si trova al di là della montagna, al di là dell’altro confine, in territorio musulmano. In un attimo scorrono davanti ai miei occhi le immagini di questi ultimi anni trascorsi con loro. I miei obiettivi. Le speranze accese dalle loro parole. E sì, perché nonostante tutto, loro sono lì, e sono tutti assieme, benché separati. Separati dallo stesso sottile confine che incontrai il primo giorno che arrivai in questi luoghi, sei anni fa.
Ma non c’è tempo per questi pensieri. E’ ora di tornare a casa. I ragazzi di Orahovica si ammucchiano sul furgone diretto dall’altra parte. Quelli di Petrovo si avviano verso le loro case, a piedi o in bicicletta. L’incontro con i loro genitori è parzialmente fallito.
Certo, ho passato serate indimenticabili nelle loro case. Ho assaporato il gusto puro della gratitudine per quello che abbiamo cercato di fare per loro. Ho lottato con le poche parole della lingua a mia disposizione per seguire il filo dei loro lunghi discorsi, inevitabilmente diretti verso due distinte verità (pur con la mediazione della nostra presenza. Eppure non c’è odio, ma solo ironici sorrisi mentre declinano educatamente l’invito a partecipare all’ultima gita, ideata espressamente per il loro primo incontro. E una grande gioia mi assale quando qualcuno dei ragazzi afferma che quest’esperienza ha cambiato per sempre la loro vita, che ha dato loro speranza e gioia. Questo mi fa pensare che alcuni di loro siano ormai pronti per trasmettere queste emozioni ad altri loro coetanei che vivono tutt’ora il dramma dell’odio etnico o religioso, in altre sfortunate parti del mondo. Sono piccoli tesori quelli che ho accanto a me. Sono loro i veri ambasciatori di pace!
A Teslic, destinazione dell’ultima escursione, agitano rumorosamente le acque della locale piscina facendo intervenire il servizio d’ordine. Una signora autoritaria si presenta e chiede chi siano questi ragazzi. “Sono studenti di due classi che si sono incontrati, sono serbi e musulmani”, risponde con orgoglio il nostro autista. “Ma è possibile?” chiede sorpresa l’impiegata dell’albergo. E si allontana lasciandoci tra le mani le sue lacrime per un figlio perso in questa stessa guerra.
Il viaggio
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