Paesi di emigrazione
LibiaData di partenza
1951Periodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)Temi
paesaggioTemi
paesaggioFiorella ricorda estasiata il primo giorno trascorso a Tripoli, al seguito del padre, alla scoperta di una città che le dà subito sensazioni positive.
Mio padre non si stanca di indicarmi e illustrarmi ogni luogo, ed io non mi stanco di ascoltare e di guardarmi intorno ammirata ed emozionata. Mi sembra già di conoscere la città, ma ancora non mi basta. “Allora andiamo un po’ fuori, ti porto a vedere un’oasi”. Intanto godo la luce intensa, brillante, la nitidezza di ogni dettaglio. Uscimmo da Tripoli, a destra il mare azzurro, a sinistra campagna incolta, riarsa. All’improvviso palme altissime, tante, già con i ciuffi verdi da cui sarebbero cresciuti i datteri. Piccoli appezzamenti coltivati, fiori, piante di stelle di Natale, le poinsezie, spontanee, nate nel terreno in modo disordinato per il clima mite del Nord Africa. Si sente un lontano gorgoglio di acqua che scorre, si vedono donne in baracani a righe multicolori che si muovono per le faccende intorno a casupole un po’ primitive, con tetti di foglie larghe di palma. Gli uomini si occupano dei campi, vestiti con tuniche e calzoni che sembrano larghe mutande bianche, un po’ sporchi. Quando scendiamo dall’auto, veniamo circondati da bambini festosi, spesso malvestiti. Sono di tutti i colori, mulatti, neri, o con la pelle olivastra, ed hanno in testa la taghia bianca di cotone. Hanno occhi grandi, bocche spesso sdentate, ma sempre sorridenti. Chiedono: “bashish, bashish!”. Il babbo distribuisce un po’ di piastre e poi tira fuori dalle tasche una manciata di caramelle. Contenti dicono: “Shukram, grazie, amdulillah!”. Poco lontano c’è un pozzo, è da lì che viene il rumore d’acqua. La costruzione è bianca, a calce: ai lati due pilastri a gradoni, uniti da una grossa trave di legno. Al centro della trave è fissato un meccanismo primitivo ma efficace per attingere l’acqua. Un sentiero di terra battuta parte in discesa dal pozzo per circa 50 metri e viene percorso da un asinello spelacchiato guidato dal padrone, in su e in giù. Percorrendo la discesa, l’asino tira la corda, a cui è attaccato il recipiente in cuoio per l’acqua. Un sacco molle esce dal pozzo e si svuota in un bacino, da cui si dipartono le canalette per irrorare i campi di cipolle, carote, rape e cavoli. lo guardo tutto con curiosità e ammirazione e continuo a vivere nella mia favola, accanto a mio padre, che mi accompagna e mi insegna. Viene il tramonto, il cielo si colora, giallo, arancio, rosso fuoco. “E’ ora di tornare alla pensione, la mamma ci aspetta!”.
Per la prima volta sono talmente eccitata che non sento la malinconia dell’ora del tramonto, di cui soffro da sempre. Appena il sole è scomparso, ecco una piccola stretta allo stomaco, un senso di abbandono ad un domani sconosciuto, forse paura del buio, un’inafferrabile rimpianto, lacrime dentro. A sera avanzata tutto passa, di solito. Ceniamo nella sala da pranzo ed io non faccio che raccontare. Non dimenticherò mai quel primo giorno d’Africa. L’eccitazione non mì fa addormentare. Quante novità per una come me, abituata alla scuola severa delle Orsoline, alla divisa con la gonna blu e la camicetta celeste, alla madre superiore arcigna, una come me, che spesso sta sola oppure con quelle due o tre amiche di Via Nardini. Da quando infatti non abitavamo più in Via Piemonte, al laboratorio andavo pochissimo, anche da nonna Ida si andava poco. Ci sentivamo per telefono, ma tutto stava cambiando. Soprattutto, io ero entrata di botto in un nuovo universo di cui quasi non mi capacitavo. Nella camera della pensione, prima di riuscire ad addormentarmi, i miei pensieri sono tutti rivolti al futuro. Cosa faremo, quando tornerò a Roma, come andrà l’esame; ma comincio anche a dimenticare la mia vita di prima, le festicciole di Carnevale con i costumi cuciti da mamma, da ungherese e da damina del ‘700, i pranzi da nonna Ida. A Tripoli facevo una vita piacevole e spensierata, niente studio, non avevo neanche portato i libri, e passeggiate con mamma in giro per la città, a curiosare e a fare compere. Ci affascinava parecchio la città vecchia, passavamo l’Arco di Piazza Castello e ci ritrovavamo in Oriente. Suk el Muscir aveva un grande cortile con i portici, a terra mattonelle moresche variopinte, al centro una fontanella in marmo bianco con acqua zampillante. Intorno, negozi di artigiani del rame e dell’ottone, che battevano coi loro martelli a forgiare piatti e brocche decorative, poi argentieri e orafi che facevano orecchini, collane e bracciali in filigrana. Il negozio del maestro Angelini stava anch’esso a Suk el Muscir. Era qualcosa di diverso, soprattutto si potevano trovare o anche ordinare oggetti bellissimi di ispirazione orientale, ma di qualità superiore.
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