Mestieri
insegnanteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
IsraeleData di partenza
2004Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Temi
miseriaTemi
miseriaArriva anche l’ultimo dell’anno, ma il soggiorno di Patrizia a Betlemme è segnato soprattutto dall’incontro con i bambini palestinesi che vivono all’interno di uno dei campi profughi.
31 dicembre 2004
Visitiamo due campi profughi a Betlemme. A Beit Jibril ci accoglie un responsabile del Campo; anche lui, come tutti quelli che abbiamo incontrato, non chiede aiuti per uscire dalla gravissima situazione economica, ma ci chiede di raccontare la verità di ciò che vediamo, di “testimoniare” le loro difficili condizioni di vita. Insieme a noi c’è un numeroso gruppo di scouts italiani. Ci mostra le attrezzature di una grande cucina, regalo di Giovanni Paolo II. In Italia non si è parlato molto di questo dono del Papa ai musulmani… Questo Campo è stato creato nel 1948, per ospitare i profughi provenienti da 84 villaggi palestinesi. All’inizio era costituito da tende, poi sostituite da abitazioni in muratura, una stanza per famiglia. La gente del Campo continua a sperare di ritornare nella propria terra, custodiscono la chiave della casa da cui sono stati cacciati e chi è morto l’ha lasciata come eredità preziosa ai propri figli. “L’occupazione ha un gusto amaro, — dice la nostra guida — il campo profughi è un esilio.” Noi ascoltiamo in silenzio. Qui sono già nate tre generazioni di Palestinesi, il primo bimbo oggi ha 57 anni. La giornata è calda e luminosa, il cielo sereno, ma all’interno del Campo si respira umidità e fa freddo, perché le costruzioni sono così vicine l’una all’altra che il sole non riesce a riscaldare le vie strette e buie. Mi colpisce molto vedere che queste donne, questi bambini, questi uomini sono privati anche di un bene così prezioso e naturale, della luce e del calore che ogni giorno sono destinati ugualmente a tutti, senza bisogno di meriti o ragioni.
Nel pomeriggio andiamo a Deheishe, un altro campo profughi alla periferia di Betlemme. A pochi metri dalle case, gli Israeliani hanno costruito il nuovo Muro davanti al quale incontriamo un gruppo di bambini; ci fermiamo a fotografare e a giocare con loro. Jiand ha sette anni, gli occhi luminosi e furbi per necessità, nasconde la sua infanzia dietro un’aria da dura senza paura, si difende dalla sua fragilità di bambina che cresce all’ombra di un muro più alto di suo padre, più alto della sua casa. Otto metri di cemento limitano il suo orizzonte, il suo sguardo sbatte sempre contro quell’ostacolo grigio e crescerà con la speranza di abbatterlo, renderà i suoi muscoli e i suoi pensieri così forti fino a farlo saltare, forse fino a farsi saltare…
I bambini del campo profughi di Betlemme corrono tra i sassi e giocano, cercano una carezza e tenerezza, poi all’improvviso l’ingenuità lascia il posto alla rabbia verso di noi che con i nostri sorrisi e abbracci promettiamo una vicinanza ed una condivisione subito negate e ci allontaniamo verso le nostre comode vite di sempre. La rabbia dei bambini è uno schiaffo, raccolgono pietre e le impugnano con un gesto istintivo che svela la nostra viltà e la nostra colpa di adulti incapaci di proteggerli da una violenza più forte di loro, che li invade prima che ne possano essere consapevoli, che si radica nei loro corpi e si manifesta prima ancora di diventare volontà. Ogni giorno la violenza di un muro invalicabile che con prepotenza sale al cielo e il silenzio di un mondo che si accorge dei bambini quando sono già diventati uomini e donne disperati, uccidono l’infanzia di Jiand, di Ahmad, di Chalil e li condannano a crescere senza fiducia in un genere umano che dimentica gli indifesi.
Ci allontaniamo piangendo, lacrime inevitabili, forse inutili eppure necessarie per capire almeno una piccola parte di quel dolore immenso che abbiamo incontrato oggi.
1 gennaio 2005
E’ iniziato un nuovo anno. A mezzanotte abbiamo brindato ad una festa organizzata dagli scouts italiani insieme ad alcuni gruppi palestinesi. Ci scambiamo gli auguri ed ognuno di noi accende nel proprio cuore una nuova speranza di pace, per la propria vita e per tutti. Passeggiamo per la piazza di Betlemme, liberi dal dovere del divertimento. Lontana dalla pubblicità martellante, dal lusso, dalle nostre vetrine, dalle offerte salmone — champagne dei nostri supermercati, mi appare con innegabile evidenza l’artificiosità delle nostre convenzionali scadenze che ci costringono a festeggiare tutti allo stesso modo, per dimostrare a noi stessi di essere felicemente vivi come i modelli patinati da cui il nostro immaginario è stato invaso; subiamo, e allo stesso tempo scegliamo, una “occupazione” della mente che non ci impoverisce materialmente, ma dissolve le nostre identità individuali, limita la nostra creatività e la nostra generosità, ci rende insicuri e per questo disposti ad affidarci a chi ci promette insignificanti certezze. Siamo così fragili che ci accontentiamo di credere alle parole, alle immagini…senza ricercare la concreta forza dei fatti.
Alle 2 festeggiamo in albergo il compleanno di Gianni, il maestro di fotografia che ha organizzato e guidato questo viaggio.
A mezzogiorno partiremo per l’aeroporto di Tel Aviv, ma durante la mattinata abbiamo un po’ di tempo per fare una passeggiata al mercato. Compero un cd di musica araba, contiene le hit del momento in Medioriente. Per strada un ragazzo prepara un torrone in un piccolo paiolo; avvolta nel profumo dello zucchero caramellato e delle spezie, mi fermo ad osservare i suoi gesti veloci e precisi. Ne taglia un pezzo e me lo porge, mi sorride: “No money, happy new year!” Questa gentilezza mi sembra un bellissimo augurio per l’anno appena iniziato e parto con il sapore della dolcezza di questa gente, di questa Terra.
Il viaggio
Mestieri
insegnanteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
IsraeleData di partenza
2004Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Gli altri racconti di Patrizia Di Luca
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