Francesco Tripodi

Per buona parte delle sue 136 pagine, “Una voce lontana” – lo scritto autobiografico del siciliano Francesco Tripodi – è un paesaggio tratteggiato a memoria. Dal suo Castiglione di Sicilia, piccolo paese sulle pendici dell’Etna dove è cresciuto, Francesco è partito a 24 anni, e non vi è più tornato se non tanti anni dopo, in una breve vacanza in cui ha capito che il paese della sua infanzia, quello che ritrova ogni sera prima di addormentarsi, non esiste più. E dunque tanto vale tornare laggiù, nel posto più estremo dell’emigrazione, l’Australia, ritrovando i piccoli successi di una vita di sacrificio: una casa, figli e nipoti che parlano un’altra lingua. E dunque tanto vale rifugiarsi nel ricordo di un paese natale ormai scomparso, dove la miseria non impediva alla gente di ritrovarsi alla domenica in piazza, magari ad ascoltare un cantastorie, o anche solo a passeggiare conversando dell’annata, del governo, di fatti piccoli e grandi.

Dopo 34 anni trascorsi nell’altro emisfero, in una lingua sorprendentemente corretta nonostante i pochi anni di scuola e la scarsa pratica, Francesco Tripodi ferma sulla carta le immagini di quand’era ragazzo, personaggi e costumi ormai trapassati. Del Paese in cui ha per più di due terzi della sua esistenza non ha molto da dire, se non cenni al lavoro nelle ferrovie australiane e a qualche curiosa usanza che non è riuscito a far propria. È il paese con la minuscola (un paese minuscolo) quello che gli sta a cuore.