Adua dopo la guerra

5 Giugno 1936

Ad Adua il mercato, ha ripreso il suo ritmo anzi molto più affollato giacché con le affluenze delle nostre truppe, la merce viene con più facilità venduta. Son paesi di silenzio e di sole, non vi è proprio niente in Adua, tranne il Ghebbì di Rais Seium distante dal villaggio poche centinaia di metri. Mure grigie e triste da ogni parte miseria e squallore, specie di strade circa un metro, uomini e donne imbacuccati come fantasmi nei baraccani bianchi. Vivono nel tucul e al riparo delle basse volte in muratura a secco, o nell’ombra di cadenti Zeribe, si baratta, si contratta, si litiga, si prende il caffè, si fuma e si chiacchiera. Gente coperti di squallidi cenci, sempre con la stessa monotona cantilena, lamenti: mi meschino goitano meschino…! E gli odori! Sono cento e ne formano uno, inconfondibile: l’odore da nausea. Sono odori di menta, di incenso, di garofano stemperati cogli aspri forte di erbe e delle spezie, vapori grassi, mescolandosi alla puzza selvatica, che emanano. Le donne usano (e queste tutte, anche dell’Eritrea) ungersi i capelli con grasso di cammello, oppure con burro cattivo arancito. L’aria in mezzo a questi tucul sembra irrespirabile, poi il nostro olfatto si abituerà un poco alla volta. Dall’alba al tramonto c’è sempre la stessa folla, delle specie di bottegucce quali i merciai attendono, immobili e assorti come idoli, il cliente. Ho visitato il Ghebbì di Ras Seiun, francamente Io trovo discreto. Qualche cosa di europeo si nota. Si vede il ferro da stiro, pentole, qualche tavolo, cesso tipo europeo. Però di tutto questo si preferisce l’Italia, si lascia agli altri il piacere dell’orientalismo.