Mestieri
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Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)A Santa Cruz, in Bolivia, dove Gabriele lavora a un progetto del Vis per il reinserimento sociale dei ragazzi di strada arriva un circo...
Vicino la “casa del volontario” – il nome della nostra residenza circondata da filo spinato – da qualche tempo han tirato su un circo. Una sera, tornando da Techo – casualità con i trampoli in spalla (sto facendo “scuola di trampoli” ai ragazzi di strada), mi sono fermato al botteghino circense per sapere gli orari degli spettacoli ed i costi (mi piacerebbe portare i ragazzi qui). “Ma tu cosa fai con quei trampoli?” – mi han risposto. “Lavoro con i ragazzi di strada: sto insegnando loro ad andare sui trampoli. In Italia ho lavorato nel campo dello spettacolo: sono giocoliere, sputafuoco, mago… faccio un po’ di tutto”. “E perché non fai uno spettacolo qui, da noi?”. “Eh?”. “Sì: uno spettacolo qui, nel circo” – altra gente circense si avvicina dalla penombra del botteghino per spiarmi. Sembra che io sia un’attrattiva: artista italiano qui in Bolivia. Approfitto della situazione. “Sì. Sì! Mi piacerebbe. E lo farei anche gratis”. “No no: noi ti pagheremmo”. “No, facciamo una cosa” – mi gioco la carta, nascosta nella mia testa, la tiro fuori – “io faccio uno spettacolo qui. E voi fate entrare – senza pagare – i ragazzi di strada con cui lavoro. Ragazzi ed educatori. Sono una trentina”. Immagino che la mia proposta possa essere rifiutata, che ci possa essere qualche dissenso. Invece no: gli sta bene così. Ci scambiamo i numeri e via: affare fatto, ed io farò – per la prima volta nella mia vita – uno spettacolo in un circo – un circo boliviano che come tutte il resto del mondo boliviano sembra degli anni Settanta: la tenda è piena di buchi, le tribune sono assi di legno legate fra loro da corde, la luce del sole – di mattina – trapassa le tende blu e colora il pulviscolo per l’aria di blu (l’aria è blu!), la luce degli strobo e dei fari – di notte – anch’essa si posa sulla polvere dell’arena e colora l’aria del circo boliviano di giallo, arancione, rosso, viola; intorno alla tenda girano come mosche una decina di bambini, aiutanti del circo, e gli artisti sono quasi tutti della stessa famiglia: i pagliacci hanno i piedoni grandi di plastica, fumano sigarette dietro le tende prima di entrare mentre il sudore scola sul viso assieme al trucco; i trapezisti hanno le spalle grandi e le tutine attillate; la mangiatrice di fuoco è una giovane cicciona che – senza alcuna coreografia – mangia il fuoco e basta, e dal palco/arena torna dietro le tende del circo con una camminata lenta e stanca. Marcelo è tuttofare, pagliaccio, ma anche sarto, cuce le tende, rattoppa, crea vestiti pagliacceschi, costruisce parrucche con capelli veri, suo fratello è un pagliaccetto di tredici anni con una grandissima parrucca sulla testa e tanto – tanto – trucco sul viso a marcare soprattutto gli occhi, occhi furbi, troppo svegli per un bambino della sua età (è l’artista principale dello spettacolo, si comporta come un grande e svolge il ruolo di pagliaccio carismatico: a tredici anni!).
Ed io, io sono contento di entrare in questo mondo.
Il giorno dello spettacolo vado in anticipo. Già da qualche giorno loro hanno il mio cd con le musiche. Ma loro – Marcelo dirige i lavori – sono presissimi dall’armare nuove tende, tirar su pali, sistemare le panche di legno storte. Mi siedo lì, aspetto, guardo, mi alzo, faccio avanti ed indietro – dentro e fuori il tendone: sono impaziente, poiché io vorrei provare prima, sentire se la musica va, funziona e – soprattutto – vorrei sincerarmi che non abbiano perso il mio cd (pensiero che – non so perché – mi sfiora la testa, forse a causa di questo mondo boliviano dove tutto è “casino” e poco è “organizzazione”). I minuti scorrono. Io cerco di star calmo, ma di provare non se ne parla: montano l’impianto audio pochi minuti prima delle 21,00 – orario d’inizio dello spettacolo. Marcelo urla ad un ragazzetto di preparare il mio cd, mentre sistema le corde del trapezio. Il ragazzetto, disperato, fruga fra i cd. “Non lo trovo!” – dice. Marcelo con un urlaccio gli dice di cercarlo – “che sta lì”. Mi ci metto anche io – a cercare il cd – mancano cinque minuti all’inizio dello spettacolo ed io – d’accordo con il capo del circo – avevo programmato di fare due coreografie, una col fuoco e l’altra con le palline luminose (giocoleria) – coreografie che senza la mia musica non posso fare. Cerchiamo e ricerchiamo, ma il mio cd non spunta fuori. Il circo è strapieno. La gente (ed i ragazzi, con gli educatori) è già tutta seduta, la donna moglie del capo del circo da ordine d’iniziare, ed è tutto un corri corri un fuggi fuggi e trucchi e vestiti e nessuno che mi può dar retta. Tutti corrono dietro il tendone, io corro fuori dal circo, verso la casa del volontario, mentre il ragazzetto tecnico audio tremante non sa che fare. Trecento metri di corsa, apro il portoncino di ferro, salgo a due a due le scale della casa, apro la porta della mia stanza, aggrappo il machintosh bianco, prendo al volo un cavo, e via, corro di nuovo in direzione opposta. Al circo, mi arrampico fra la gente seduta fino alla postazione tecnico audio, apro il computer, col cavo lo collego all’impianto audio, iTunes e musica per spettacoli e spiego al ragazzetto come funziona un computer stra-moderno immerso in un circo impolverato anni ’70. Il ragazzetto però è sveglio, capisce tutto subito. Mi fiondo dietro le “quinte”, e vedere uno spettacolo da dietro il tendone d’ingresso “palco” è un’esperienza affascinante. Sbircio fra i buchi o mi lascio prendere dalle ombre che trapelano attraverso la tenda ed alle orecchie mi arriva la musica circense assieme agli applausi (sempre misurati) del pubblico boliviano. Gli artisti si danno il cambio, entrano, escono, si distendono distrutti sul terreno dopo la loro performance. Tocca a me, ed il mio timore è che il tecnico sbagli qualcosa, fra musica e luci, viste le mie spiegazioni frettolose. Va tutto bene, faccio quello che ho sempre fatto, non sapendo come possa reagire un pubblico circense. Alla fine dello spettacolo i ragazzi di strada – all’uscita – mi circondano e mi danno pacche sulle spalle, ed io li vedo contenti. E per la prima volta mi ritrovo in una situazione qui surreale: una decina di ragazzi intorno a me, che sembrano – negli sguardi – vedermi con stima, non sguardi aggressivi o sguardi passivi, ma sguardi di ragazzi che – negli occhi – mi dicono “mi potrei fidare di te”. E’ un attimo, un attimo che mi sorprende, un processo che più volte ho vissuto in Italia (entrare in relazione con qualcuno grazie alla goliardia di uno spettacolo, un qualcuno che decide di parlarmi e conoscermi perché – così è lo spettacolo – ho saputo esercitare bene il mio potere demagogico microfonesco) e che per la prima volta mi sembra di rivivere qui. Non credo nella mia bravura “spettacolare”, questa serve a poco, se non ad aprire le porte delle relazioni. Ma qui mai mi era capitato di aprire qualche porta. Ora, mi sembra, negli occhi dei ragazzi, di sì.
Il viaggio
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