Mestieri
cooperanteLivello di scolarizzazione
Paesi di emigrazione
GuatemalaData di partenza
1988Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Dopo un lungo e accidentato viaggio, Marco Cabiati arriva insieme ad altri cooperanti presso un villaggio sperduto nella foresta pluviale del Guatemala. Una comunità, una “aldea”, che li accoglie con curiosità e calore.
Come portare la croce attraverso un cammino lungo, attraverso il dolore, la pena, il sole, l’arsura, la pioggia, il fango. La marcia è lunga ed estenuante, dopo tre ore di camionetta ci attendono 6-7 ore di completa immersione nella foresta pluviale. Il cammino scandisce il tempo e ad ogni passo aumenta il desiderio di giungere alla fine. Come sempre, camminando non riesco a fare a meno di pensare e, come a volte mi succede, pensando arrivo a soffrire. Considero la mia situazione, considero il mondo da cui sono venuto, le idee che mi muovono, il modo con cui le porto avanti.., il dolore; capisco la fatica che fa la gente di qui a vivere, capisco la rabbia impercettibile che aleggia nell’aria, sento tutto questo rivoltare le mie più profonde convinzioni. Sento il mondo ovattato dove vivo, e da dove provengo, svanire. E’ come se tornassi indietro negli anni, quando da noi si viveva in condizioni simili, quando non c’erano strade e la vita era più dura. Ma qui tutto è ancora più duro, il contrasto è schiacciante. Il fatto che il nostro gruppo giunga in questo posto sperduto nella foresta e vi permanga per alcuni giorni, costituisce sicuramente un evento eccezionale, sia nella nostra esperienza, sia maggiormente nella storia della comunità di cui siamo ospiti. L’accoglienza è semplice: man mano che ci addentriamo nel villaggio incontriamo diverse persone: donne, bimbi, ma soprattutto uomini. La comunità, contrariamente al solito, ha deciso di mettere a nostra disposizione un’intera capanna, di un uomo senza famiglia, che durante la nostra breve permanenza, sarà ospitato dalla madre. Per ognuno di noi hanno preparato un letto, costruito cori tavole di un legno molle, leggero, simile al balsa. Tutto è a nostra disposizione. Un uomo tra i più maturi viene con un secchio d’acqua e con un catino più piccolo. Con un gesto semplice e naturale ci dà il benvenuto, lavando le mani ad ognuno di noi. Questo rito si svolge nel silenzio generale: avvertiamo ancora una volta l’importanza del nostro arrivo. Guidandoci alla sua aldea, l’uomo ci disse che indubbiamente Dio aveva voluto che noi venissimo, perché ci aveva offerto una bella giornata. Mi viene in mente ora questa espressione, perché trovo che sia perfettamente in armonia con il rito di accoglienza e, più in generale, con lo spirito di questa gente, che piccola e straordinariamente resistente, riesce meglio di noi a cogliere l’essenza della vita, tra tutte le difficoltà, dolori, la pena. Così continuano a vivere mantenendo una serenità quasi innata, che sboccia in sorrisi inaspettati su volti scavati dalla fatica che la vita nell’aldea comporta.
Non conoscendo l’idioma locale, non riusciamo a parlare con i nostri ospiti; fortunatamente la nostra guida, che lo sa parlare perfettamente, riesce a spiegarci quello che dobbiamo fare. Loro, gli indigeni, continuano ad osservarci, senza porsi problemi si affacciano a gruppetti alla porta e qui sostano qualche minuto, mentre noi, non nascondendo la nostra stanchezza, prepariamo i nostri giacigli. E’ schiacciante come noi siamo diventati complicati, dipendenti da mille e mille piccole cose inutili, vane, come noi, forse. E’ schiacciante la loro semplicità: la capanna sotto cui dormiamo è costruita senza un chiodo o un elemento non naturale: tutto legno, liane, foglie di palma. Noi lì, con tutti i nostri pesanti e scomodi amenicoli, lì sotto i loro occhi. Gli occhi, come con i bambini, di nuovo gli occhi soltanto comunicano; il dialetto, o meglio, l’idioma locale, è per noi soltanto una sequenza di suoni, sussurrati nella sera che scende, è una lingua dolce, molto intima,anche questa in sintonia con lo spirito, con la spiritualità che pare aleggiare nell’aria di questo villaggio. La sera scende rapida sul piccolo villaggio e in poco tempo tutto è avvolto dall’oscurità e dall’umida nebbia che si leva dal suolo. Consumiamo la cena, che era già stata preparata in anticipo, poi, stanchi come mai prima, ci abbandoniamo al sonno.
Un timido turbinio di vento, freddo; attraverso le fessure delle pareti, attraverso il sacco a pelo, una ventata di aria. Apro gli occhi, che piano, piano si abituano all’oscurità della capanna. Per un istante riesco a non pensare: riposo; quando lenta, quasi con discrezione, la pioggia inizia a cadere sul tetto di foglie di palma, sulla terra brulla, sulle piante della foresta, sugli animali che continuano a razzolare attorno; la pioggia viene e va, spinta a ondate dal vento, la pioggia tutt’attorno; una benedizione, uno stimolo ulteriore al sonno; la pioggia, violenta si riversa nella terra, nelle crepe, gonfiandole di fango; la pioggia, il pianto della gente, del bambino nella foresta; ho sentito un bambino piangere nella foresta; la pioggia, la benedizione, pensieri, la azioni, le mani… la pioggia… il sonno… il sogno. La luce dell’alba irrompe tra le fessure delle pareti per insinuarsi nella fessure degli occhi., che nuovamente si aprono al nuovo giorno, come prima fecero nella notte. La gente dell’aldea è già sveglia da molto, le donne, per preparare le tortillas, iniziano a lavorare alle 4-5 del mattino: è un lavoro duro, che richiede molto tempo e molta fatica. Il rumore quasi impercettibile che questa lavorazione produce, il rumore del rullo di pietra che percorre, instancabilmente spinto dalle braccia della donna, l’asse di pietra curva, questo rumore sembra avvolgere nell’oscurità del villaggio.
Scorre la pietra sulla pietra, scorre e rende ancora più fine l’impasto di mais e acqua da cui nasceranno le tortillas, il piatto base della dieta guatemalteca. Nel silenzioso modo di muoversi di questa gente viene il giorno che nasce, su tutte le loro piccole case, sui loro piccoli campi ritagliati nella foresta, sui loro fiumi dove si lavano e dove abbiamo avuto l’onore di lavare i nostri bianchi corpi, tra le risa divertite dei bambini, a cui basta un bottone colorato per giocare. Ora, con gli occhi riposati, tutto ha una dimensione diversa. Il cibo, l’aria, gli stessi sguardi degli abitanti dell’aldea, hanno un sapore diverso, più familiare. La comunità dell’aldea non è, come da noi sono le comunità, un pretesto per fare qualcosa. No, l’aldea, l’aldea originale è una comunità necessaria al singolo, alle famiglie, alla comunità stessa, alla vita. Questo forse è un nuovo modo, estraneo a noi occidentali, di vivere la comunità, questo è il modello da cui ci siamo allontanati, complicandoci, alienandoci forse.
In una capanna utilizzata per le riunioni collettive, siamo seduti tra gli indigeni; la comunità è riunita per decidere e stabilire alcune cose riguardanti questioni di vita corrente, questioni pratiche, che qui vengono vissute come cose importanti. Si parla di rinchiudere il bestiame, invece di lasciarlo liberamente girare per le case, portando sporco e malattie. Ci si interroga sul funzionamento dei gruppi degli uomini e delle donne. Un uomo, tra i più maturi, lamenta la mancanza di vecchi quale punto di riferimento per questa comunità di “desplasados”, formatasi da appena due anni. I vecchi rappresentano la cultura, la storia, la tradizione, sono come i libri, gli antichi codici del nostro Medioevo, e alcuni vecchi che, non nell’aldea, mi è capitato di incontrare, portano proprio questo immenso carico sulle spalle ormai ricurve, sul viso, tra i pochi denti. Non a caso sono tra le vittime più colpite dalla repressione che, cancellandoli, tende a colpire nell’intimo la cultura india. Ma qui non ci sono vecchi; la cultura dei desplasados è una cultura relativamente giovane. E’ la cultura di un popolo senza più terra, ma con la terra nel cuore… nella fede. La storia di questa gente è come una striscia di sangue che si disperde – lungo le peregrinazioni, le fughe attraverso la foresta. E’ storia di morti scannati, bruciati, tagliati a pezzi, gonfiati di botte… figli, donne, uomini, morti. Tutti di fronte a questa storia sono vecchi di dolore se non di anni, anche l’uomo che ora sta parlando, sussurrando la sua melodia, quasi una cantilena, esprimendo con lo sguardo sperso il suo parere, i suoi problemi, i suoi consigli. Anche quest’uomo, per quanto abbia appena una quarantina d’anni, è vecchio qui nell’aldea dove la sua gente, dopo eterne sofferenze, ha trovato pace; la terra promessa.
E si alza ad un certo punto un canto, dopo la lettura del Vangelo, un canto lento, ciclico, corale, di uomini e donne, come tra le parole del discorso ora la gente, la comunità, innalza le sue lodi al Signore. Ancor oggi, ogni tanto, mi risuona in mente la melodia di quel canto semplice e, ancor oggi la confondo con il normale dialogare di quella gente, che ricordo come la più vicina al vero spirito dell’umanità, come, al di là di ogni credo, la più vicina a Dio.
Il viaggio
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