Anni perduti

Nel frattempo gli inglesi avevano occupato Bengasi. Mio marito era stato catturato, ma era riuscito a fuggire con un gruppo di ufficiali; si erano rifugiati nella nostra casa. Furono poi ripresi e seguirono la sorte di tutti gli altri prigionieri. Li portarono prima in Egitto, poi in India, ai piedi dell’Himalaya, a Bangalore. Là mio marito rimase cinque anni, al campo 25. Per svariati mesi rimanemmo senza notizie, tanto io quanto lui.

Furono tempi penosi, da smaltire un giorno dietro l’altro. Le notizie che gli inglesi fornivano, sia a noi che ai prigionieri, erano sempre alterate e contribuivano a farci stare in pena. Poi finalmente, a mezzo della Croce Rossa, potei avere l’indirizzo di Vittorio e potei fargli sapere che mi trovavo al sicuro in Italia, presso la mamma. Piangevo inconsolabile per le mie cose lasciate in Africa e che ormai ritenevo perdute. Tutta la mia casa, il mio mondo. Furono anni terribili. Gli anni più belli della mia vita, distrutti così.

Iniziai con mio marito una lunghissima corrispondenza. Quasi un diario. Cercavo di infondergli calore e sostegno. Lo sentivo tanto avvilito e deluso. La guerra si era svolta del tutto diversamente da come lui immaginava. Le lettere arrivavano a entrambi censurate con larghe strisce nere. Gli inglesi facevano ai prigionieri il cosiddetto lavaggio del cervello. I campi erano circondati da altoparlanti che trasmettevano da mane a sera notizie false e tendenziose. Molti ufficiali, per la paura, aderirono alla collaborazione con gli inglesi, dietro promessa di essere liberati e rimpatriati. Mio marito, coerente ai suoi principi, non aderì mai.