Mestieri
insegnanteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Yemen, Libia, Eritrea, SomaliaData di partenza
1908Periodo storico
Periodo post-unitario (1876-1914)Eugenia apre la propria memoria ricordando il profilo del padre, patriota italiano impegnato nella lotta contro l’Impero Austro-Ungarico prima dell’Unità.
Sono nata a Milano il 23 dicembre 1867: mio padre – veneto, anzi cadorino – era uscito da poco più di un anno (ottobre 1866) dalla fortezza austriaca di Petervaradino ultima delle varie fortezze in cui era stato rinchiuso, dopo che il processo per “alto tradimento” gli aveva inflitto la condanna a 12 anni di carcere durissimo.
Il processo, durato sedici mesi, aveva avuto luogo a Venezia e proprio nell’isola di San Giorgio dov’erano rinchiusi i cinque imputati (dal Bò – Brinis – Morolin – Fusinato – Zanetti) ed era terminato con l’assoluzione del conte Morolin e dell’avv.to Clemente Fusinato (fratello del poeta Arnaldo) e la condanna di dal Bò e Brinis a 12 anni di carcere durissimo e di Zanetti a 10 anni.
Di questa triste vicenda fu tutta piena la mia infanzia per i racconti che ne sentivo fare: la mia anima ed il mio cuore si volsero ad una sconfinata ammirazione e devozione verso il martire glorioso che aveva con tanta fierezza sopportata la pena e l’ingiustizia e che era mio padre. Egli che aveva nel 1845 combattuto per la difesa del Cadore con Pietro Calvi e poi fra i Cacciatori del Sile, nelle truppe comandate dal generale Zucchi e che era stato ferito a Visco, in pieno petto da bajonetta austriaca, non parlava mai di sé; ma, oltre la mamma che, avendo preso parte attivissima alle vicende del processo, ne parlava molto volentieri, c’era in casa quando io nacqui un chioggiotto affezionatissimo a papà ch’egli aveva conosciuto in carcere, avendone conforto ed aiuto. Questa brava creatura, pescatore di mestiere, di cuore ed animo fiero ed ardente di amor patrio, si era prestato a trasportare con la sua barca quei giovani che emigravano dal veneto onde arruolarsi nelle file dell’esercito italiano con la speranza della guerra di liberazione per le nostre terre oppresse ancora dallo straniero. Il viaggio era pieno di rischi, perché l’Austria vigilava; ogni emigrato però era un soldato di più contro il nemico della sua patria ed il buon Luigi Spagno era orgoglioso dell’opera sua. Ma, colto in fragrante, fu messo in carcere all’isola di San Giorgio dove era – ancora sotto processo – mio padre.
Dopo il processo, Spagno gli fu compagno anche nelle fortezze austriache, anzi la fortuna volle che non si lasciassero più fino al giorno della liberazione del fido chioggiotto. Tornato a Venezia, questi aveva trovato la famiglia distrutta: un fratello che, come lui, si era prestato all’emigrazione clandestina, morto in carcere e la madre morta di crepacuore ed oltre a ciò la barca confiscata. Andò a portare i saluti del prigioniero rimasto lassù, alla Follina dove la mia mamma si era rifugiata, con le sue due bambine ed il figliastro, che le era caro come un figlio, presso suo padre il Sig.r Antonio Bugo, mio nonno. Andava il buon chioggiotto a portare a quelle creature il saluto del prigioniero che, pur sperando nella liberazione della patria e sua per conseguenza, era ancora in catene e sopportava stoicamente la pena inflittagli: Spagno baciava i bambini, guardava la giovane sposa afflitta e le lacrime gli cadevano copiose dagli occhi pensando al padre, al marito lontano, al Sior Eugenio pel quale egli aveva un culto. Quella sua commozione, la semplicità della sua anima e del suo cuore indussero il nonno ad invitarlo a rimanere presso di loro ed egli rimase e fece da quel giorno parte della famiglia: e da lui noi figliuoli attingemmo le semplici e commoventi narrazioni che ci parlavano dell’eroismo e della fierezza indomita di papà che era, per Luigi Spagno, un idolo e come tale venerato.
Mi dissero che la prima parola da me pronunciata fu “Pagno” perché di questa nuova nata egli era diventato lo schiavo e mi viziava tanto da incorrere nei rimproveri della mamma.
Io lo ricordo benissimo: basso, tarchiato, con i capelli e le sopraciglie foltissime e due begli occhi buoni e miti; aveva una bella voce di baritono ed il nonno, musicista sensibilissimo, gli aveva insegnato a cantare qualche aria del Ballo in maschera dell’Ernani, del Rigoletto ed egli cantava per me che rimanevo affascinata – dicevano – da quella voce. “Piccola grande fia” mi chiamava egli; e quando facevo i capricci diceva: “Rossa dal pelo, un diavolo per cavelo” alludendo al colore dei miei capelli che avevano qualche riflesso rossastro. Come lui mi viziava anche la Teresina, una brava ragazza che era cameriera in casa nostra ed io fui Galeotto nel loro amore che finì in un matrimonio. Papà trovò modo di tenere Spagno vicino a noi affidandogli un compito delicato nella sua azienda, ed io ricordo il mio seggiolone trasportato spesso da casa nostra – eravamo allora nel Padovano – alla casa dei coniugi Spagno, lontano un centinaio di metri, perché io vi ero invitata a pranzo; e la Teresina mi faceva i gnocchi che mi piacevano tanto e dopo il pranzo mi offriva il caffè “col piattino ed il cucchiaino” – cosa che m’insuperbiva assai perché avevo l’impressione di essere trattata da signora. La famiglia era cresciuta con me e doveva accrescersi poi con un’altra piccola sorellina – Nella -; cinque figliuoli non erano pochi e mio padre lavorava. Appena uscito dal carcere e ritornato in patria –nel 1866 – dopo la liberazione del Veneto, egli era stato consigliato a far valere i suoi diritti ad un risarcimento dei danni sofferti, l’Austria infatti gli aveva confiscato una villa e terreni a Strà in provincia di Venezia ed una casa in Venezia: per fortuna la dote della mamma che per quei tempi, era cospicua, era stata dal nonno tenuta separata e quella non poté essere perciò confiscata e fu poi il fondamento della nuova famiglia, quantunque il processo ed il resto che venne poi, ne avessero consumato buona parte.
Il viaggio
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