Mestieri
operaioLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
VenezuelaData di partenza
1952Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Felice Malgaroli fa un bilancio molto severo della sua vita di operaio, impiegato in una fabbrica metalmeccanica di Torino.
Durante la giornata, vivevo la vita di fabbrica e la scuola serale, come una malattia. Un po’ era il rendermi conto che quella non era vita e molto influivano gli anni di infanzia vissuti in campagna dove ero nato. Mi pareva a volte di essere un albero e che le mie radici fossero rimaste laggiù nella campagna dell’Oltrepò pavese. Là era rimasto il ricordo di una vita aspra ma densa di aromi e affetti, soprattutto ricordavo la nonna materna quando mi teneva con sé — a turno con il nonno paterno: anni in cui mio padre era al confino e mia madre lavorava alla fabbrica dei cappelli. In quella famiglia tutti lavoravano la campagna. Oltre alla nonna, c’era mio zio e quattro suoi figli, tutti adulti, due femmine e due maschi. Questi ultimi, oltre a dare una mano in campagna, facevano i fabbri. Sovente ero a far girare la girare la ventola della forgia guardando affascinato il ferro incandescente e le scintille che sprizzavano quando veniva battuto. Altre volte seguivo la nonna nel suo vagare lungo il viottolo dietro casa, quando al margine dei campi cercava erbe aromatiche e altre adatte agli animali da cortile. La mia vita lì pareva risalisse prima dei miei ricordi e sembrava dovesse durare per l’eternità. Quando mio padre tomò dal confino ci trasferimmo a Torino. La città mi era estranea. I bambini parlavano un altro dialetto e anche quando cominciai a capirlo, i loro giochi di fantasia e pezzetti di bastone che simulavano qualunque cosa si volesse, mi coinvolgevano più per necessità che per gioia. A volte tentavo di raccontare loro come fosse bello cavalcare il somaro, andar a vedere nascere un vitello, partecipare in mezzo alla pula alla battitura del grano o a pigiare l’uva nella bigoncia con i piedi nudi. Ma essi si annoiavano e i più non capivano nemmeno di cosa stessi parlando. Nei primi anni nacque mio fratello e poco dopo si ammalò mia madre. In quella occasione pregai lungamente e feci voti perché guarisse, pregai con tutto me stesso, ma morì ugualmente e persi lei e la fede insieme. La città non era fatica fisica, era fatica di vivere e lo fu sempre anche negli anni seguenti.
Il mio lavoro di collaudo non e fisso; devo solo girare a caso, controllando dove ci sono le vibrazioni. Ho la possibilità di muovermi liberamente, non sono più vincolato alla produzione conosco cosi tutta la fabbrica. Il lavoro è sempre duro, l’odore dell’acciaio arroventato si mischia al sudore e i colpi di maglio sono tanti che si fondono in un solo rumore. Non si riesce a parlare neanche gridando. Ho preso il mio diploma e fatto domanda di impiego all’azienda elettrica. Dopo lo scritto c’è una visita una visita medica e attitudinale alla sede di Via Bologna e infine un dialogo alla direzione di Via Bertola. Le domande sono centinaia per solo due posti e bontà dell’azienda ci assumono in quattro. Gli altri tre entrano come impiegati tecnici a cinquantamila al mese ed io come operaio a trentamila. Più o meno è la stessa paga della Riv e il mio sogno crolla di colpo.
Il viaggio
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