Mestieri
operaioLivello di scolarizzazione
licenza elementarePaesi di emigrazione
SvizzeraData di partenza
1954Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Dalle barriere linguistiche alla ricerca degli altri immigrati, grazie ai quali riesce a recuperare una dimensione del sociale fino ad allora perdura. Giovanni racconta un percorso migratorio esemplare nella Svizzera del secondo dopoguerra.
È stata una dura avventura. Era difficile ricevere il passaporto, figuriamoci il resto. Non c’era nessuno a cui rivolgerti, anche se c’era il Consolato, ma io ne ero all’oscuro. Dove vai? A che cosa vai incontro: cultura, lingua, razza, cibi ecc.? Per me tutto questo è stata una frustata, uno shock. Grazie alla mia forza di volontà, lavoravo sette giorni su sette; non esisteva riposo domenicale. Forse, per me era meglio così, perché non sapevo dove andare e cosa fare. In questi casi solo la chiesa avrebbe potuto fare qualcosa. Per esempio: prendere tutti gli indirizzi dei nuovi arrivati e invitarli, per informarli e incoraggiarli. I loro cibi erano con poche calorie, per me era ancora meglio. Non mi venivano minimamente in mente le ragazze, come se io fossi impotente. Per me era una punizione assegnatami dal destino. Questi cibi mi davano le calorie e forze giuste per lavorare, come se tutto fosse stato su misura. Basti pensare che la padrona di casa mi contava le fette di pane e non mi dava più di una zolletta di zucchero; io non ero un mangione, altrimenti sarei morto di fame. Per me era una donna con il cuore di pietra, come un generale in famiglia. Era proibito ammalarsi. Il padrone era soddisafatto di me, a tal punto da darmi 20 franchi in più del salario fissato dal contratto, cioè 180 invece di 160 franchi. Per lui ero un lavoratore qualificato, tranne nella lingua; facevo tutto. Questo tran-tran durò per circa tre mesi. Una sera, uscendo con la carriola dalla stalla vidi un uomo di mezza età, che mi chiese se ero un italiano. Risposi subito di sì: per me era come vedere uno spiraglio di luce, che da un pezzo non vedevo più. Naturalmente mi dimenticai della stalla e mi sfogai a parlare. C’era una riserva di circa tre mesi di soffocamento di linguaggio. Con lui era come aver ritrovato me stesso. Quest’uomo era uno stagionale, che lavorava come muratore dal fratello del mio padrone. Egli mi mise al corrente di tante cose e di qui cominciò l’attrito con il mio padrone, perché cominciavo a chiedere dei diritti che mi spettavano, come il riposo una domenica al mese. Questo connazionale mi disse dove trovare gli italiani, cioè alla stazione di Uster. Per riconoscerli non era difficile: si trovavano dove c’erano gruppi. Questo era un segno di debolezza e di povertà. E così seguii i consigli datimi.
Arrivò la settimana successiva e feci capire al padrone che io mi prendevo il giorno libero. Allora lui saltò, si arrabbiò, ma alla fine dovette accettare la realtà dei fatti. Egli faceva finta di non sapere, invece sapeva tutto, eccome. Dissi che mi sarei recato in stazione, a cercare i miei amici. Andai e già a distanza vidi certi gruppi. Mi avvicinai, ma non capivo quasi nulla; di tanto in tanto capivo qualcosa e allora mi feci forte e chiesi di che nazionalità erano. La loro risposta fú subito: “Siamo italiani”. Per me fa una grande gioia, mi sentivo a mio agio. Li pagai da bere, pur di farmi parlare, io con il mio accento molisano e loro con quello comasco o bergamasco. Io li facevo ridere, ma essi non erano meglio. L’unica differenza era che io ero del sud e loro del nord. Avendo contatti con vari conoscenti, venni a sapere tante cose. La cultura si raccoglie: come si sa, é come il frumento, con la differenza che prima si raccoglie e poi si semina. Mi prendevano in giro come meridionale: ero il solito terrone, ma detto senza cattiveria; per loro era uno scarico di bocca. Cercavo di assorbire tutto quello che sentivo. Questo per quanto riguardava l’amicizia di strada: il ristorante, le attività sportive. Per quanto riguardava l’associazione o il lavoro, subito scattava la gelosia, perché come meridionale ero sottovalutato; significava essere ignorante rispetto ai nordisti. non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, altrimenti ti trovi deluso. Cercai sempre di farmi valere e poi mi presero in simpatia. Cercai di fargli capire e distinguere l’istruzione dall’intelligenza. C’è una bella differenza: l’intelligenza è come l’amore che non ha confini; é la natura che decide e per la cultura allora si cambia. Il proverbio dice: “Mettiti con chi é migliore di te e rifondici le spese”. Continuai a lavorare come contadino per tutto il periodo del 1954.
Il viaggio
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