Mestieri
barbiereLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
AlbaniaData di partenza
1940Periodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)Il lungo calvario del soldato Carlo Cipriani, dalla prima linea del fronte greco-albanese dove combatte nell’inverno del 1940-41, all’ospedale di Tirana dove nei primi giorni del gennaio 1941 subisce l’amputazione di entrambe le gambe, a causa di un congelamento.
La mattina del 5 gennaio poco prima del levar del sole le nostre posizioni furono investite dal fuoco concentrico delle artiglierie nemiche. Mentre stava imperversando questo spaventoso bombardamento me ne stavo tutto sdraiato a terra completamente stordito dal fragore assordante dell’esplosioni e fortemente preoccupato per l’inevitabile catastrofe che andava chiaramente delineandosi.
Il mio compagno Merola nella sua corsa sfrenata mentre passava di fronte al mio improvvisato ricovero mi ripeteva a gran voce: ci sono i greci, ci sono i greci, ci ammazzano tutti! Non ora tempo di star li a riflettere ed il primo impulso che ebbi fu quello di darmi anch’io alla fuga. Tentai invano di mettermi le scarpe ma non fu possibile perché l’alto strato di fango di cui erano ricoperte l’aveva talmente ristrinte ed indurite tanto che i miei piedi non potevano entrarvi per nessuna ragione. Il tempo stringeva ed anche un solo secondo di più potevo essere fatale. Allora arrotolai una coperta che mi posi o tracolla e scivolai giù dal costone scosceso con l’intenzione di correre svelto verso il fondovalle. Le gambe perè non se le sentirono di sostenermi e caddi disteso sullo neve. Con fatica mi riuscì di alzarmi ma non di reggermi in piedi e ricaddi di nuovo ruzzolando pesantemente sulla neve.
Ricuperai un po’ di energie forse proprio in virtù dell’estrema eccitazione in cui mi trovavo e barcollando come un ubriaco ricominciai e camminare giù per le montagna cercando di mettermi al riparo dal tiro dei greci. Poi mi dovetti fermare per riprendere fiato e mi accorsi che i miei piedi sgorgavano sangue imbrattando le neve ed il fango di un rosso vermiglio.
I miei piedi coperti soltanto da un paio di calzini di lana ormai pregni di fango e di sangue erano lì intirizziti, gonfi od incapaci di sostenere il peso della mio persona e soltanto col sostegno di un bastone e con uno spirito di sopportazione incredibile, mi fu possibile raggiungere il fondovalle dove aveva sede il Comando di Reggimento. Il nostro battaglione risultava decimato, molti erano i morti i feriti e i dispersi, ed alcune centinaia di superstiti erano lì insieme a me in condizioni pressappoco identiche alle mie. Decine e decine di feriti più o meno gravi giacevano per terra, i pochi medici esistenti facevano del loro meglio per lenire le sofferenze di quei poveri diavoli ma non potendo disporre né di attrezzature né dell’occorrente materiale sanitario il loro aiuto si riduceva a ben poca cosa. Basti pensare che per fermare l’emorragia dovevano provvedere con le cinghie dei pantaloni con delle comuni corde o con qualsiasi altra cosa che servisse per stringere. E così avveniva per bendare le ferite doveva provvedere stracciando le camice dei morti in lunghe strisce e con queste fasciare alla, meglio. Nel tentativo di poter parlare con un ufficiale mi inoltrai fra quei rottami umani ed ebbi la sventura di imbattermi di fronte ad un maggiore della milizia ordinò l’adunata di tutti i superstiti dicendoci di tenersi pronti perchè non appena caduta l’oscurità della sera dovevamo ritornare all’assalto per riconquistare la posizione perduta. No! Non potevo assolutamente credere alle mie orecchie. Come sarebbe stato possibile? Ma quale assalto potevamo dare se a fatica stavamo in piedi sostenendosi l’un con l’altro? Mi ripetevo ma quest’uomo è pazzo!
Intanto lì vicino a noi era sopraggiunto un battaglione di camice nere cha bivaccavano in attesa dell’imminente partenza. Erano state inviate in fretta e furia dall’Italia ed ora erano in li in attesa del battesimo del fuoco. Quel fetente Maggiore della milizia prese possesso del comando di questo battaglione di camice nere e dispose che procedessero su per le montagna in colonna alla distanza di circa 500 metri l’una dall’altra ed al centro noi poveri relitti. Io mi trovavo in fondo alla lunga film indiana e arrancando come meglio potevo, cercavo di seguire gli altri. Le vecchie scarpe che avevo potuto procurarmi togliendole ad un soldato defunto in attesa della sepoltura stavano rovinandomi i piedi e mi impedivano di camminare con più sveltezza. Benchè fossero stato molto grandi però’ per calzarle dovetti tagliare le tomaie dalla punta fino allo stringhe e quindi praticamente era come se avessi i piedi scoperti.
Camminavo con estrema difficoltà zoppicando e procedendo come un automa. Mi sentivo vacillare! Sentivo proprio di dover cadere da un momento all’altro. Infatti ad un certo momento, caddi a terra privo di sensi. Non potrei dire quanto tempo sia rimasto lì in quello stato però al momento in cui due mani pietose mi tolsero le neve da dosso mi pareva che fosse trascorsa un’eternità. Due portaferiti tentarono di mettermi in piedi ma le mie gambe divenute ormai rigide come due bastoni non erano più in grado di sorreggermi e visto che non ottenevano alcun risultato mi sistemarono sulla barella e mi condussero all’infermeria.
La mattina successiva potei presentarmi de me alla visita medica ed ed il tenente medico m’invitò a togliermi i calzini ma non ne fui capace poiché il fango ed il sangue che era uscito copiosamente aveva formato una crosta così secca e resistente che i calzini non si potevano togliere. Allora il medico li tagliò in più parti con le forbici e poi, con le pinze, dette una stratta con forza ed apparve il piede di un colore violeceo e mancante di un dito che era rimasto attaccato al calzino.
Il medico si sedette e, su un pezzo di carta, vergò la diagnosi e mi disse ecco la “bassa” presentati al 31° ospedale da campo. ll tragitto è lungo e non vi è alcun mezzo di trasporto, perciò arrangiati e soprattutto cerca di far presto. Così, in compagnia di altri feríti, mi incamminai traballando sorreggendomi ad un bastone in direzione di questo ospedale. Sapevo che era urgente far presto ma le mie gambe non volevano saperne. Mi trascinavo avanti con una volontà sovrumana lottando disperatamente per non lasciarmi vincere dallo sfinimento. Finalmente giunsi al tanto sospirato ospedaletto. Alcune lacrime bagnarono la mia lunga ed ispida barba. Anche sotto la tenda di questo ospedale si sprofondava nel fango fino alla caviglia e sulla prima branda che incontrai vi caddi pesantemente. Verso la mezzanotte, insieme ad altri feriti e congelati, fui fatto salire su di una camionetta per trasferirmi in un altro ospedale da campo più nell’interno.
Tirana — 11 Febbraio
Esattamente un mese fa, cioè l’11 gennaio, visto che le mie condizioni generali non miglioravano affatto e la febbre persisteva sui 38° fu deciso di inviarmi all’Ospedale Militare di Tirana, dove vi giunsi la sera stessa a mezzo di una ambulanza della C.R.I. La maggior parte dei degenti erano congelati e feriti arrivati di fresco da vari ospedali da campo e quindi le loro ferite emanavano un fetore di carne putrefatto da far rigirare lo stomaco.
Fui visitato da un colonnello e da un maggiore medici e dal loro modo di parlare e di gesticolare mi resi conto che si doveva trattare di un caso molto serio però non mi fu rivelato la gravità né richiesto alcun parere sul da farsi. Intanto le mie condizioni generali andavano sensibilmente aggravandosi di minuto in minuto: il polso galoppava come un cavallo ed un forte mal di testa mi mi faceva impazzire. Erano circa le 17,30 del 12 gennaio quando due infermieri mi posarono di nuovo su di una barella e mi portarono in sala operatoria per procedere a quella operazione che, pur ignorando del tutto la sua gravità, mi faceva tanta paura. Mentre alcuni dottori burlavano allegramente con alcune crocerossine fui adagiato sul banco operatorio, con il capo ben stretto fra le ginocchia, subito dopo una grossissima siringa penetrò nella regione lombare iniettando l’anestesia per rendere insensibile entrambi gli arti, cioè dal bacino ai piedi. Speravo anzi desideravo fortemente, che almeno mi venisse risparmiato lo strazio di dover assistere con i miei occhi all’agghiacciante spettacolo che ormai stava per concretarsi, ma, invece, continuai a vedere e a sentire ben distintamente fin quasi al termine dell’operazione. Fui disteso sul banco inclinato con le gambe semiflesse che sporgevano dal banco, dai ginocchi in giù, mentre al di sopra di questi vi era una grossa cinghia che teneva le gambe fisse al banco. Altre cinghie premevano le braccia ed il torace mentre la testa l’avevo sostenuta dalle braccia di una Crocerossina. Il mio sguardo ormai semispento e rassegnato fissava insistentemente il grosso lampadario che penzolava dal soffitto ed inondava la sala di una luce vivida ed accecante. Con un colpo deciso e risoluto il bisturi affondò nelle mie carni e mano a mano che i grossi vasi sanguigni venivano recisi il sangue pisciava abbondantemente nella sottostante tinozza zincata e quel gorgoglio insistente penetrava nelle mie orecchie con sempre maggiore intensità. Poi il ronzio continuo e fastidioso di una minuscola sega elettrica proseguì per lungo tempo per completare l’opera. Così per qualche ora fui costretto ad osservare i movimenti rapidi e decisi di due ombre bianche che annaspavano indistintamente intorno alle mie gambe ormai inerti e insensibili. In quel preciso momento in cui il mio arto sinistro che per primo venne staccato dal corpo e, con un tonfo sordo, gettato per terra, comparve davanti ai miei occhi una fitta nebbia che mi faceva sparire tutto in un mondo di vapori e di silenzio.
Il viaggio
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