Figlio di un antifascista

Ricordo perfettamente una di quelle sere che era di Domenica, mio babbo che non aveva ancora trent’anni tornò dal paese di Soci (il paese più vicino dove era il seggio elettorale) fracassato dalle botte che i fascisti gli avevano dato. Quelle elezioni furono veramente una beffa, nel retro delle cabine i fascisti avevano praticato un foro per spiare coloro che votavano contro il regime, mio babbo fu uno di quelli, e così alcuni fascisti, i più scalmanati, lo aspettarono fuori e lo investirono a suon di manganellate. […]

Dopo poco tempo il babbo fu costretto ad espatriare in Francia, anche perché nel lanificio dove lavorava dall’età di dodici anni lo licenziarono. E così si stabilì in Francia, dove tanti altri italiani avevano trovato asilo, adattandosi a fare tutti i lavori, anche i più umili, quelli che i francesi non volevano più fare. Dopo un paio d’anni fu raggiunto da mia mamma e da mio fratello Moreno, di due anni più giovane di me, io e mia sorella che era la più piccola si rimase con la nonna Giovanna che era anche vedova. I miei dalla Franca ogni tanto ci mandavano 100 Franchi, ma non bastavano per mantenerci e la nonna era costretta a lavorare davvero tanto: aveva un pezzetto di terra e una mucca, e così poteva vendere tre o quattro fiaschi di latte al giorno. […]

Quando tornavo da scuola, davo una mano alla nonna a fare qualche lavoretto nel campo, e così studiavo poco, inoltre molte maestre di allora, che erano per lo più fasciste, l’80% del tempo lo passavano ad insegnare ai figli degli amici fascisti, e noi figli di avversari politici eravamo abbandonati a noi stessi: io ero uno di quelli, e così bocciai la terza elementare. Mia sorella, che era piccola di me di sei anni, ricordo che piangeva quasi sempre perché sentiva la mancanza della mamma.