Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Arriva l’indimenticabile giorno della nascita di Gloria, figlia concepita da Silvana Conci in Sudan, nel 1974, nata dall’unione tra Silvana e il marito Bol.
Si avvicinava per me il termine della gravidanza e mi chiedevo come avrei compreso quando sarebbe giunto il momento. La suora aveva cercato di tranquillizzarmi dandomi delle spiegazioni ma, essendo la mia prima gravidanza, mille dubbi e paure mi assalivano, soprattutto la sera dopo che suor Benedicta se n’era tornata al convento. Ogni minimo mal di pancia mi metteva in allarme. Da un pezzo il bambino scalciava e si dimenava, ero un po’ confusa. E c’era sempre quel “piccolo intoppo”: non riuscivo a spiegarmi, a confidarmi con nessuno, neppure con quelle donne che stavano affrontando il mio stesso problema. Mi limitavo ad elargire sorrisi.
La mattina del ventiquattro febbraio accusai dei dolorini al ventre più acuti ma sopportabili. La suora, dopo avermi visitata, disse che la testa del bambino era molto bassa e che, con l’inizio delle contrazioni uterine, il parto sarebbe stato veloce. Nel pomeriggio calma totale. La sera non avevo sonno perciò passavo da un lavoretto all’altro. Verso la mezzanotte, dopo aver fatto una doccia, riuscii ad appisolarmi. Mi svegliai verso le due con strani dolori al basso ventre e non riuscendo a stare ferma mi alzai. Quando le contrazioni cominciarono a darmi il brivido decisi di andare dall’infermiera di turno che mi visitò. Era una donna araba robusta, più o meno della mia età. Ed era una brava infermiera. Mi disse di star tranquilla. Le raccomandai di avvisare suor Benedicta se giudicava che il momento era arrivato, come d’accordo. Quando persi le acque erano le tre e venti. Ritornai dall’infermiera insistendo perché chiamasse suor Benedicta e non mollai. I dolori erano diventati insopportabili e frequenti. La suora arrivò alle quattro e mi prepararono in sala parto. Sdraiata sul lettino invocavo mia madre, Dio e la suora. Muovevo ritmicamente le gambe strofinando involontariamente le caviglie sul ruvido lenzuolo finché mi fecero male i malleoli. Ripetevo in continuazione: “Oh mio Dio, suora che male! Basta, non ce la faccio più, non ne faccio più (bambini)!”. La suora e l’infermiera fecero il possibile per aiutarmi. Nessuno mi aveva spiegato cosa accade nei particolari in quei momenti e mi vergognavo per gli incidenti fisiologici. Mi avevano fatto u n clistere e avevo cercato di liberare l’intestino per “fare più posto”, come disse la suora. Nonostante ciò durante le spinte avevo l’impressione di sporcare. Ma era tale il dolore della contrazione che preferivo il dolore della spinta. E spingevo con tutte le mie forze. Quel dolore acuto, che tornava sempre più presto, sembrava durare un’eternità. Dicevo: “Voglio farlo subito, suora!”. Mi fecero passare su un altro lettino e suor Benedicta mi insegnò a tenermi le caviglie con le mani e a tener fermo il bacino. Spingevo, interrompevo con un breve respiro e spingevo… la suora mi incoraggiava. Poi disse: “Ci siamo”. Fu veloce, un dolore tremendo e compresi che stava uscendo la testa, e immediatamente un altro dolore più forte: erano le spalle. Il resto uscì come risucchiato dall’esterno. Era tutto finito.
Gloria nacque mentre sorgeva il sole: erano le cinque e quarantacinque minuti. Mi dissero che era una bambina. Per un attimo rimasi perplessa, avevo sempre pensato ad un maschio. La placenta non era uscita completamente nonostante i tentativi delle due ostetriche. Quando scesi dal lettino sentii girare la testa poi più niente. Mi risvegliai con fatica e non riuscivo a rispondere a quella voce lontana che gridava: “Silvana, Silvana, cosa mi combina!”. Finalmente riuscii a vedere il mio corpo sporco di sangue, allora ricordai e compresi ciò che era accaduto. Ma non avevo forza. Mi sollevarono e mi misero sul letto. Provavo un freddo polare, lo dissi e mi portarono due coperte, non riuscivo a fare alcun movimento. Mi dissero in seguito che avevo avuto un collasso e che la suora si era molto spaventata. Mi attaccarono la flebo. Mentre guardavo la bambina, e solo allora, percepii il significato profondo dell’essere donna in Africa e piansi. Non riuscivo ad accettare quel futuro per mia figlia. La dottoressa cinese che venne a visitarmi mi sgridò: “Una mamma deve essere felice”. Avrei voluto spiegare, ma non trovavo le parole. Ancora una volta ero furiosa con me stessa. Non si può vivere bene in un luogo senza conoscere la lingua che vi si parla. E’ vero, avrei potuto impararla in futuro, ma era in quel momento che avevo la necessità di esprimermi, di sfogarmi con quella donna che mi stava accanto, una donna come me, come mia figlia. Mi avrebbe compresa? La bambina era chiara ed era molto bella, mi piaceva soprattutto la sua bocca. Aveva esattamente i lineamenti di suo padre. Pesava quasi tre chili (sei rotul e dieci) ed era lunga cinquanta centimetri. Appena mi alzai la presi in braccio per allattarla. Mi vennero le ragadi ancora nei primi giorni e quando la bambina si attaccava provavo un gran dolore. Usai l’olio di vaselina per ammorbidire i capezzoli senza risolvere un gran che. Avevo anche i capezzoli piccoli e la bambina faticava a prenderli e a succhiare, così cominciò a piangere e piangeva spesso. Dubitai di avere abbastanza latte e pensai che la bambina piangesse per la fame. Su consiglio della suora provai a togliermi il latte spremendo le mammelle ma, nonostante le sentissi piene, riuscivo a ricoprire solo il fondo di un bicchiere. L’allattamento divenne per me un problema. Non ricordo quando passai all’allattamento misto ma credo presto, e misi in dubbio di essere un buona madre. In Africa una donna allatta i suoi figli almeno fino ai due anni. Avevo un altro motivo per sentirmi inadeguata in quel Paese.
Il viaggio
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