Paesi di emigrazione
CroaziaData di partenza
1946Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Il racconto di Sonia sulla visita al padre Cherubino, detenuto dal regime titino a Goli Otok, piccola isola che si trova a nord del Litorale croato, in prossimità di un’isola più grande, quella di Rab (Arbe). È distante circa dieci miglia dalla costa e ha una superficie di appena 4,7 chilometri quadrati. L’isola ha una forma triangolare. L’isola prese il nome di Goli Otok (Isola nuda) proprio perché è una massa di pietra deserta. I venti che soffiano con insistenza non permettono ad alcuna pianta di sopravvivere a lungo.
L’isola di Goli Otok divenne la tomba per tanti innocenti, e per tantissimi fù il luogo dove le mostruosità commesse dagli uomini agli uomini arrivarono al loro apice. Il viaggio fino a Fiume fù lungo e travagliato. Arrivate a Fiume, le nubi temporalesche si erano dissipate, il mare era calmo e il cielo era sereno. Prima dell’imbrunire mia madre ed io dovevamo trovare un posto dove trascorrere la notte. Doveva essere vicino al porto, perché il giorno successivo, alle ore 6, una nave, di nome “Punat”, ci avrebbe dovuto portare a Goli Otok. La stazione non era molto lontana. Nella sala d’aspetto c’era altra povera gente che come noi si era rifugiata qui per la notte, nell’attesa di proseguire per la propria destinazione. Mia madre mi adagiò sopra una panca e mi coprì con una coperta che aveva portato apresso. Appoggiai la testa sulle sue ginocchia ma non potevo addormentarmi. Neppure mia madre riusciva ad assopirsi un po’. Una agitazione aveva preso il posto della stanchezza. Che cosa ci portava l’indomani? La nave “Punat”, che non era una nave di linea, avrebbe salpato per Goli Otok? E se dovevamo esserci solo noi due in quella nave, cosa ci poteva succedere?
Non era ancora l’alba quando mia madre mi allacciò le scarpe e mi fece mangiare qualche cosa. Fuori faceva ancora buio, e la nebbia avvolgeva ogni cosa. Lei voleva arrivare al molo quanto prima, ma procedevamo faticosamente. I nostri piedi erano intirizziti e il corpo era stanco. Per la strada non c’era anima viva e avevamo paura. La densa nebbia ci aveva fatto perdere la nozione della strada fatta. All’improvviso, davanti a noi si presentò prima il molo e poi la nave “Punat”. Un gruppo di donne vestite in giacche scure e trasandate con delle borse in mano, parlavano a voce alta. Mia madre chiese loro se stavano aspettando di imbarcarsi sulla nave “Punat”, ma esse non la capirono. In quel momento un uomo grande e grosso uscì in coperta e con voce rauca e assonnata disse qualche cosa che a noi sembrò come un invito ai passeggeri di imbarcarsi sulla nave la cui destinazione era Goli Otok. Le donne, accompagnate da alcuni uomini appena arrivati, salirono silenziosamente, e noi li seguimmo. Stavamo per prendere posto nell’interno della nave quando all’improvviso tre persone lontane dal molo una ventina di metri cominciarono a chiamare e fare dei segni. Era evidente che erano arrivati in ritardo. Ma l’equipaggio della nave non fece caso. Insensibili alle sofferenze altrui continuò a levare le ancore e la nave salpò. “Povera gente, forse vengono da lontano. La Jugoslavia è grande. Chissà quando sarà nuovamente permesso a fare visita ai detenuti di Goli Otok. Noi siamo il primo gruppo di persone che ci vanno. Ringraziamo il Signore per averci aiutato a imbarcarci in questa nave”, mi disse mia madre. Eravamo in alto mare quando alcuni marinai entrarono nella saletta. Ci guardarono con disprezzo. Tutti portavano la rivoltella alla cintola. Uno di loro teneva in mano un foglio di carta e una matita. Ognuno di noi doveva andare al tavolo, dove era seduto, a riferirgli il proprio nome, il nome del prigioniero al quale si faceva visita e il grado di parentela con lui. Il mare era calmo. Sembrava che la nave sotto la luce dell’alba scivolasse sulla superficie di un’acqua oleosa. La nebbia si stava diradando lentamente. All’improvviso, in mezzo a tutta quell’acqua aparve in lontananza un grande blocco di roccia bianca. Erano trascorse sei ore dalla nostra partenza e ci stavamo avvicinando all’isola di Goli Otok. Fra i passeggeri ci fù agitazione, ma nessuno faceva domande, nessuno parlava. La grande roccia bianca provocava paura e imponeva ad ognuno di noi uno sconcertante mutismo. Il sole ormai alto sull’orizzonte sprigionava sulla distesa d’acqua faville che accendevano nei nostri cuori la speranza di un felice incontro con i nostri cari. La nave accostò al molo. Ci fecero attendere più di due ore prima di scendere a terra. Avevamo tutto il tempo per “contemplare” da vicino l’isola nuda che già allora portava in sé il segreto di tante atrocità compiute nel suo suolo a nome di un felice futuro dell’umanità. Nella nave, intanto, l’impazienza e l’angoscia per lungo dissimulati, iniziò a crescere fra i passeggeri, ma nessuno osava chiedere spiegazioni all’equipaggio. Ad un certo punto, dalla parte occidentale dell’isola sbucarono degli uomini seminudi e malconci. Il loro aspetto non sembrava più umano. Erano prigionieri che in fila ritornavano dal lavoro forzato. Con un andamento stanco sparirono dietro un casermone lungo e basso dal colore grigiastro davanti al quale passeggiavano alcune sentinelle. Subito dopo questo venne permesso lo sbarco. Tutti, con un silenzioso mormorio, lasciammo la nave. Sul molo la nostra angosciosa attesa durò ancora un’ora.
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