Paesi di emigrazione
SvizzeraPeriodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976) Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)La commovente storia dei primi anni di vita di Alessandro Dal Molin, dalla nascita ai primi anni di frequenza della scuola elementare.
Per i conoscenti eravamo i ragazzi della “Ribaldona”. L’appellativo, che sembrerebbe indicare il nome di una brigata partigiana, c’era attribuito, molto meno gloriosamente, semplicemente perché abitavamo in due stabili di proprietà della nota famiglia Ribaldone. Uno degli edifici, il più grande, dava sulla statale del Sempione: ospitava numerose famiglie e la vecchia trattoria “Alessandrina”, con il bel pergolato e grosse tavole con le lastre di pietra. L’altro edificio, un poco più piccolo, di qualche metro più arretrato rispetto alla strada, costituiva, insieme al primo, un punto di raccordo fra il centro di Domodossola e il popoloso rione Cappuccina. Un ampio cortile, con lavatoio scoperto alimentato da una piccola roggia e un gioco delle bocce in disuso, separava le due costruzioni, mentre orti, pollai e campi ricchi d’alberi e vigneti si estendevano tutt’attorno. Fu in quel cortile polveroso che vissi, insieme con un nugolo di coetanei, l’infanzia. La mia famiglia, composta da sei persone (genitori e quattro figli) alloggiava in una povera abitazione di soli due vani: cucina e camera, con i servizi, se tali si possono definire, spesso intasati, in comunione con altre famiglie. Mio padre, che abusava dell’unica valvola di fuga concessagli dalla vita, si abbandonava, infatti, a frequenti, sonore sbornie, lavorava nella vicina manifattura tessile percependo un salario da fame. Mia madre, donna di rara sensibilità, fu la vera vittima: sopportava, con il fardello di quattro figli in tenera età, stoicamente in silenzio le più dure privazioni, e integrava le insufficienti disponibilità praticando iniezioni a domicilio e lavando montagne di panni per le famiglie agiate del circondario, ben liete di evitare con pochi spicci di immergere le mani nelle acque gelide dei rigidi inverni degli anni quaranta. Morì tragicamente in giovane età, ormai distrutta fisicamente e con il morale piegato dalle avversità. Ricordo che alcuni bambini, che spartivano il cortile con noi, avevano il padre in guerra, altri i fratelli. Ci accomunava nei giochi la giovane età, l’estrema miseria e la primitività del linguaggio. Quasi tutti sapevamo esprimerci unicamente nel tipico dialetto locale. In tale situazione, quando giunsi in età scolastica e fui condotto da mia madre alle scuole elementari, l’emozione e il panico per quel primo incontro mi attanagliarono soffocanti. L’imponente edificio, raccoglieva gli scolari di tutta la città, ubicato molto lontano dalla nostra abitazione, mi parve, a prima vista, grande almeno quanto la paura che m’incuteva. Tremante, ma fermamente incoraggiato da mia madre, feci ingresso nell’aula, finalmente trovata dopo una breve ricerca in un intrico di lunghi corridoi. Una matura insegnante, dal viso cattivo, intratteneva alcune eleganti signore, accompagnando le parole con espressioni facciali e ampi sorrisi che non le addolcivano il gelido sguardo e i tratti duri e irregolari. L’angoscia si accentuò osservando i vivaci, allegri coetanei: le loro belle cartelle, i perfetti abitini, le lucide scarpe. La giovane età e lo stato emotivo, causato dall’estrema timidezza, non m’impedirono di raffrontare i miei lindi ma rattoppati abiti, le scarpe consunte e rigorosamente chiodate, la misera cartella di cartone compresso, con quanto di diverso mi si schiudeva di fronte. Guardai la mamma, lasciata sola in disparte, e vidi quanto fosse la più bella, pur con le vesti logore, senza i belletti che mascheravano le chiassose signore, e solo a stento repressi il nodo in gola e riuscii a trattenere l’impulso di precipitarmi tra le sue braccia. Poco dopo la maestra volse lo sguardo su di noi: i battiti del mio cuore si fecero tumultuosi e, mentre mia madre fu sbrigativamente congedata senza l’ombra di un sorriso, qualche sommesso risolino, tra il divertito e il beffardo, accompagnò il mio approccio con la scuola. Benchè la statura lo sconsigliasse, fui collocato tra le file degli ultimi banchi, quelli notoriamente occupati dai somarelli, dove senza alcuna razionalità non furono sistemati i bimbi più alti, ma adottando le misure di un inqualificabile metro, che solo in seguito avrei pienamente compreso, trovarono posto i bambini giudicati unicamente per l’aspetto indigente.
Molti compagni di classe leggevano con buona sicurezza, scrivevano componendo brevi parole, tracciavano colorati disegni; io, incapace di comunicare, frenato dalla timidezza, sconfortato per il distacco dalla casa, dal cortile, da tutto quanto era stato fino allora il mio piccolo, felice mondo, tracciavo a malapena qualche asta con mano incerta e pennini solitamente spuntati. L’angoscia, ritenuta grossolanamente abulia, m’impediva di evidenziare il pur minimo profitto ottenuto con la costante presenza alle lezioni. L’insensibilità e i rudi modi dell’insegnante, moglie e complice di un noto gerarca del fascio locale, influirono negativamente sul sereno sviluppo percettivo, e incisero dannosamente sulla mia formazione caratteriale e, suppongo, anche su quella d’altri piccoli malcapitati. Quella donna esercitò su di me, non solo metaforicamente, la furia di una violenta grandinata che si abbatte su di un gracile fiore che sta per dischiudersi. Tra le maglie di tanta ottusità non poteva certamente filtrare l’idea che un bimbo di soli sei anni potesse intuire, seppure in ansia, e preda di ripetute crisi di panico, il proprio grado d’inferiorità nell’affacciarsi alle soglie di un mondo ancora sconosciuto che gli si apriva ai primi passi con inattesa ostilità. Eravamo giunti quasi al termine dell’anno scolastico quando, sorprendentemente sollecitato, mormorai, leggendo, le prime parole. L’insegnante, palesemente contrariata, di rimando mi apostrofo osservando che avrei dovuto imparare a leggere già da molto tempo. Naturalmente si dimenticò di chiarire come e dove io l’avessi appreso, considerato che per mesi ero stato completamente escluso dal coinvolgimento nelle lezioni impartite in classe. Negli stessi giorni, sorpresa, si lasciò sfuggire una sbalordita incredulità: fu quando con un problemino da eseguire sulla lavagna, si rivelò l’imbarazzata incapacità dei “primi” della classe di darvi risposta; ed io, in un incontrollato guizzo di sfida, alzai una mano e tra lo stupore dei miei piccoli, dispettosi compagni, diedi la soluzione. Non capii cosa passò per il capo alla maestra, in quell’istante, ma il viso arcigno e il modo brusco con cui immediatamente mi trasferì dal banco dei somarelli al secondo banco, lasciò supporre l’intenzione di punire i più bravi e diligenti per l’inconsueto smacco subito per opera dello straccione, a volte impunemente sbeffeggiato, soprattutto per le brutte, stridenti scarpe chiodate. L’anno scolastico volgeva alla fine: i voti trimestrali già assegnati, e la stesura delle pagelle in fase d’approntamento. Fui bocciato. Posso ancora tristemente rivivere i giorni in cui una cattiva insegnante, degna compare di un brutto ceffo di don Rodrigo, con la brutalità di un feroce mastino qual era, dilaniò nell’intimo del cuore un bambino sensibile, assolutamente indifeso di fronte alla melensità di un’indegna appartenente alla benemerita categoria. La bocciatura aggiunse difficoltà ai problemi, e tenne aperta una ferita che lasciò pesanti tracce negli anni che seguirono. Dopo l’infelice esordio scolastico, seguirono anni di grosse difficoltà, che culminarono nei mesi successivi alla Liberazione della nostra valle per opera di forze appartenenti alla Resistenza; le quali nel mese di settembre del ’44 costituirono la Repubblica dell’Ossola tra l’incontenibile tripudio popolare. Poco prima di tale avvenimento, la malvagia maestra e il consorte, fuggirono precipitosamente, senza lasciare tracce, seguiti da un ordine d’arresto emesso dal Comando partigiano, motivato dall’infamante accusa di violenze perpetrate a danno di alcuni prigionieri politici.
Il viaggio
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Fuga in Svizzera
Purtroppo la Repubblica Ossolana ebbe breve vita: dopo quaranta giorni di libertà le forze di Liberazione...